martedì 4 giugno 2013
rifiuti ripuliti ottimi per il Tav i materiali da scavo diventano innocui
I rifiuti “r ipuliti”
Alchimia italiana OTTIMO PER IL TAV
È dal 1997 che l’Italia cerca
di trasformare per legge
i materiali da scavo in
innocui prodotti naturali
non soggetti ad alcun
obbligo e “riutilizzabili” il fatto quotidiano 5 giugno 2013 Gianfranco Amendola Passano gli anni, cambiano
i governi, ma la
musica è sempre la
stessa. Con buona
pace della Costituzione le esigenze
economiche del profitto
prevalgono sempre sul diritto
all’ambiente e alla salute.
Emblematica è la storia delle
c.d. “terre da scavo” con particolare
riferimento a quelle fortemente
e pericolosamente
contaminate per la realizzazione
del Tav, ovvero perché scavate
in aree fortemente antropizzate
già sature di residui e rifiuti
di ogni genere.
Secondo la normativa europea,
le terre da scavo non naturali o
contaminate sono, di regola, rifiuti
e quindi sottoposte a una
rigorosa disciplina onde evitare
che provochino inquinamenti.
Il che, ovviamente, comporta
notevoli costi e impegni per le
imprese e il rischio di subire
processi in caso di inosservanza
delle norme.
Da ben 16 anni, la risposta dei
nostri governanti è stata univoca:
per questi poveri industriali
occorre assicurare non il rispetto,
ma l’elusione della legge; e
così, è dal 1997, con la nascita
del decreto Ronchi, che l’Italia
cerca di sancire che non si tratta
di rifiuti ma di innocui prodotti
naturali e, come tali, non soggetti
ad alcun obbligo e “riuti -
lizzabili” senza alcuna spesa e
senza alcun controllo.
Si è addirittura inventata, nel
2001, una “interpretazione autentica”
all’italiana della normativa
comunitaria che diceva
esattamente quanto non diceva
la stessa normativa comunitaria
e che era smaccatamente riferita
ai lavori per il Tav. Tanto da
portare a una sonora condanna
della Corte europea di giustizia
(sentenza del 18/12/07), in
quanto “è giocoforza constatare
che tali disposizioni finiscono
per sottrarre alla qualifica di rifiuto,
ai sensi dell’ordinamento
italiano, taluni residui che invece
corrispondono alla definizione
sancita dalla direttiva”.
Ma intanto, numerosi industriali
Tav erano stati assolti.
L’ultimo tentativo è del governo
Monti che ha ripiegato sulla tesi
che le terre da scavo non sono
rifiuti, ma “sottoprodotti” da
riutilizzare: e così nelle terre da
scavo che, secondo la Ue, dovrebbero
comprendere solo il
suolo non contaminato e altro
materiale allo stato naturale,
vengono inseriti anche materiali
del tutto estranei e contaminati
che vengono chiamati
“matrici materiali di riporto”.
In questo modo, nelle terre da
scavo ci può essere di tutto (fra
cui, ad esempio, calcestruzzo,
bentonite, polivinilcloruro
(Pvc), vetroresina, miscele cementizie
e additivi per scavo
meccanizzato) ed è un miracolo
se ci rimane anche un po’ di terra.
Tanto che, per riutilizzarle
come sottoprodotto, si consentono
trattamenti tipici di un rifiuto
per terre che dovrebbero
essere “naturali” e “non contaminate”.
MA VI È DI PIÙ. Perché il decreto
Monti conclude trionfalmente
che mantiene la caratteristica
di sottoprodotto (quindi non un
rifiuto) “quel materiale di scavo
anche qualora contenga la presenza
di pezzature eterogenee di
natura antropica non inquinante,
purché rispondente ai requisiti
tecnici/prestazionali per l’utilizzo
delle terre nelle costruzioni,
se tecnicamente fattibile
ed economicamente sostenibile”.
Insomma quel che conta è la
“sostenibilità economica” per le
imprese, non la tutela della salute
e dell’ambiente.
L’alternativa, ovviamente, non
consiste nel riempire le discariche
con terre da scavo. Nulla
vieta, e anzi è auspicabile, che le
terre da scavo siano riutilizzate
per ulteriori opere invece che
andare in discarica, ma ciò non
può che avvenire con tutte le garanzie,
i controlli e i trattamenti
che la legge prevede per il recupero
di rifiuti, e non certo attraverso
la loro liberalizzazione in
quanto “sottoprodotti”.
Desta preoccupazione che la
commissione Ue, la quale dovrebbe
essere la “guardiana dei
Trattati”, abbia recentemente
risposto a una associazione ambientalista
italiana che questa
nostra disciplina non appare
“irragionevole”. Perché, se anche
è vero che si tratta di una risposta
burocratica, scarna e ben
poco motivata, se anche è vero
che il tenore stesso della risposta
fa capire che la commissione non ha affatto compreso la reale
portata della modifica italiana, e
se anche è vero che ormai, anche
in Europa, troppo spesso prevale
la convinzione che, con la crisi
economica ed occupazionale in
atto, la tutela dell’ambiente deve
passare in secondo piano, deve
anche considerarsi che in questo
caso non si tratta di cosa da
poco ma di questione molto rilevante
sia ai fini della tutela della
salute sia ai fini di garantire
uguali condizioni di competitività
tra aziende europee.
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