venerdì 31 maggio 2013

Tav, i comuni: “Costi per forniture e acqua troppo alti”, ma Ltf: “Colpa delle violenze”

La società italo-francese fa sapere che analizzerà le osservazioni, ma invita a fare altrettanto sui sovraccosti dovuti alle azioni contro il cantiere. Per alcune forniture e servizi al cantiere di Chiomonte si paga un prezzo più alto rispetto al listino dei lavori pubblici della Regione Lombardia. I municipi pensano di rivolgersi alla magistratura

Tav Cantiere Chiomonte
Al cantiere del Tav in Val di Susa i costi aumentano troppo. Che siano quelli per i container o per la fornitura dell’acqua ai wc, i prezzi salgono e i militanti della causa No Tav vogliono che si indaghi. Per questo gli amministratori contrari alla linea Torino-Lione in undici comuni valsusini presenteranno presto un esposto alla Procura di Torino e alla procura regionale della Corte dei conti segnalando alcune anomalie. L’idea di denunciare tutto ai magistrati è nata dopo aver letto due contratti stipulati dalla Lyon-Turin ferroviaire (Ltf, società che sta gestendo i lavori) e diventati pubblici su ordine del Tar Lazio. Questi documenti dimostrerebbero come i costi per alcune forniture e servizi al cantiere di Chiomonte, dove si sta scavando un tunnel esplorativo, siano più alti rispetto al prezziario dei lavori pubblici della Regione Lombardia, usato come riferimento. In alcuni Comuni è partito così un iter amministrativo per chiedere informazioni più chiare a Ltf e per segnalare alla giustizia le anomalie. “Abbiamo votato delle delibere in cui si evidenziava che qualora le spiegazioni fornite non fossero state esaustive ci saremmo rivolti alla procura della Repubblica e alla procura della Corte dei conti”, spiega Alberto Veggio, consigliere comunale di minoranza a Condove.
Lui è stato il primo a muoversi: “A Condove è stata approvata all’unanimità la richiesta di chiarimenti all’architetto Mario Virano, presidente dell’Osservatorio Torino-Lione”, spiega a ilfattoquotidiano.it. In questa mozione sono documentate le spese: solo 765mila euro sono andate all’affitto di baracche prefabbricate da cantiere per 342 giorni. Per lo stesso periodo sono stati spesi quasi 452mila euro per il noleggio della torre faro. Per i mezzi a disposizione delle forze dell’ordine sono stati spesi 662mila euro, quasi duemila euro al giorno. “Altri dieci comuni hanno approvato il documento – continua Veggio – Tra questi c’erano anche quelli di Sant’Antonino e Susa, i cui sindaci sono favorevoli al Tav. Si vede che i numeri presentati erano talmente giganti che pure chi è allineato a Ltf non può esimersi dal chiedere chiarimenti”.
Dopo i voti a Rivalta, Avigliana, Sant’Ambrogio, Villarfocchiardo, Condove, Sant’Antonino, Susa, Bussoleno, Meana, Almese e Mattie, Virano ha inviato delle informazioni per giustificare i costi. Secondo il commissario del governo non si possono comparare i prezzi con quelli del prezziario della Regione Lombardia perché i costi di Ltf sono stimati in maniera diversa, completi di servizi e assistenza. E così, si nota nel documento della società, si hanno addirittura dei risparmi rispetto al prezziario di riferimento. Ma ci sono altre incongruenze contrattuali che gli amministratori No Tav hanno rilevato: l’Osservatorio afferma che ai contratti si applica la normativa francese (secondo cui non servirebbero tutte le certificazioni necessarie per gli appalti pubblici in Italia), eppure nei documenti si parla di diritto italiano. E poi? “Ci sono dei costi spropositati per la fornitura di acqua ai bagni del cantiere. Sono stati spesi più di 150mila euro in undici mesi”, spiega Veggio. Dal loro dossier risulta che sono stati usati 150mila metri cubi di acqua, pari a 454.545 litri di acqua al giorno e che, considerando una dotazione di 150 litri al giorno per ogni lavoratore, è come se nel cantiere di Chiomonte lavorassero ogni giorno tremila persone. Altro dato incongruente per gli amministratori è il costo delle pulizie dei container: circa 180mila euro per due lavoratori (ciascuno con un furgoncino) impiegati otto ore al giorno per trenta giorni al mese per undici mesi.
La società italo-francese ha già fornito una risposta alle contestazioni trincerandosi dietro la questione dell’ordine e della sicurezza: “Analizzeremo le osservazioni che ci vengono fatte. Invitiamo però i comuni a far altrettanto a proposito dei sovraccosti per le violenze contro il cantiere”.

Caserta, vaccinate 180 bufale ammalate per evitare i controlli sanitari

Il Corpo forestale, nell’ambito di un’attività investigativa delegata dalla procura di Santa Maria Capua Vetere sull’accertamento della qualità e salubrità degli alimenti derivati dal latte di bufala, ha sequestrato circa 180 bufale all’interno di allevamenti in provincia di Caserta, per l’operazione denominata ‘Bufale sicure‘. “Si è scoperto – spiega il procuratore aggiunto Raffaella Capasso – un ingegnoso e illegale sistema di mascheramento della brucellosi ai danni della salute pubblica e del consumatore”. I controlli della Forestale hanno evidenziato che i capi di bestiame sequestrati erano stati sottoposti alla somministrazione di dosi massicce di vaccino, servito a occultare la presenza della malattia infettiva durante i controlli sanitari. Questa frode era finalizzata a evitare l’abbattimento dell’animale infetto, come previsto dal programma europeo di sradicazione della brucellosi, proprio per eliminare il rischio di infezione, con l’evidente pericolo di contaminazione per il consumatore
 per vedere il video http://tv.ilfattoquotidiano.it/2013/05/31/caserta-vaccinate-180-bufale-ammalate-per-evitare-i-controlli-sanitari/234919/
31 maggio 2013

appello contro il Tava del comune di Mompantero

L’Amministrazione Comunale, a nome di tutta la popolazione di Mompantero, dopo attenta lettura degli organi di stampa locali e nazionali, ha appreso che sono stati istituiti tavoli tecnici e task-force per dirimere le questioni legate alla realizzazione della nuova linea ferroviaria Torino-Lione, cui sono stati invitati i comuni interessati dal progetto.
Il comune di Mompantero sarà interessato dalla linea mediante le due canne di transito del tunnel di base, ma non è mai stato invitato, né in modo ufficiale, né in modo informale. Con la doverosa premessa che non si intende sedere ad un tavolo per richiedere compensazioni, che non potranno mai ripagare i danni subiti, se mai l’opera sarà realizzata, si ritiene che sia giusto poter tutelare i diritti di tutti i cittadini e richiedere quelle opere di salvaguardia a tutela della pubblica incolumità, salute e alla prevenzione di danni irreparabili quali il prosciugamento delle fonti idriche, compresa la sorgente che alimenta l’acquedotto comunale, i rischi di caduta massi e possibili esondazioni del torrente Cenischia
Se è vero che i lavori saranno effettuati in galleria, quindi non visibili all’esterno, non abbiamo garanzie scritte, né le abbiamo trovate nel progetto definitivo, che tali opere non avranno conseguenze su tutto il nostro territorio. Inoltre la vicinanza con la piana di Susa, con cui siamo confinanti, pone al nostro Comune gli stessi problemi delle aree limitrofe ai cantieri quali: polveri, rumori, disagi sulla viabilità che sarà completamente sconvolta nelle vie d’accesso al nostro Comune. Alla luce di tutto ciò, si richiede che al nostro Comune sia dedicata la giusta e doverosa attenzione, poiché i nostri cittadini non possono essere considerati di serie B; attenzione che si richiede con forza proprio perché contrari ad un’opera che dobbiamo subire e che non abbiamo certamente voluto. Da sempre si ribadisce che, al di là dell’utilità o meno di questa grande infrastruttura, il Comune di Mompantero alla luce del gravissimo impatto che avrà sul territorio, non potrà mai dirsi favorevole. Si ritiene quindi doveroso che le istituzioni: Provincia, Regione, Ministero dei Trasporti, Europa che fortemente chiedono la sua realizzazione, tutelino un piccolo comune quale è Mompantero realizzando almeno quelle opere di salvaguardia delle persone prima che inizi lo scavo del tunnel e prima che vengano distribuiti fondi per compensazioni atte a valorizzare: teatri, piste da sci, fontane…
Con la richiesta che questo appello sia accolto, porgo distinti saluti.
Il Sindaco Piera Favro

Metalli preziosi, Onu dà il via libera alle licenze per cavi nei fondali oceanici

Le Nazioni Unite motivano la decisione con la crescita sia della domanda sia dei prezzi, il crollo della loro disponibilità, l’avanzamento della tecnologia, il fatto che sia diventato redditizio per le compagnie del settore estrattivo. Per gli esperti l'estrazione metterebbe a rischio l'ambiente

Metalli preziosi, Onu dà il via libera alle licenze per cavi nei fondali oceanici
E’ ufficialmente cominciata una nuova corsa all’oro. Le pepite moderne sono immense quantità di oro, e anche di rame, cobalto, nichel, manganese e altri metalli e minerali preziosi. E la loro ubicazione non è più il Klondike (Canada) tanto caro a Zio Paperone, ma i fondali degli oceani. Con conseguenze disastrose per l’ecosistema, anche perché le estrazioni saranno gestite da imprese private, da sempre più attente al profitto che all’ambiente. Questa nuova corsa è stata lanciata dallo studio tecnico della Autorità internazionale dei fondali marini (Isa) delle Nazioni Unite, che prevede dal 2016 una vera e propria liberazione delle licenze per gli scavi nei fondali oceanici. Motivandola con le seguenti ragioni: la crescita sia della domanda sia dei prezzi dei metalli; il crollo della loro disponibilità; l’avanzamento della tecnologia; il fatto che sia diventato redditizio per le compagnie del settore estrattivo.
Secondo una ricerca pubblicata nel 2011 su Nature Geoscience da ricercatori dell’Università di Tokyo, nei fondali oceanici ci sarebbero una quantità di metalli e minerali oltre mille volte superiore a quella estraibile scavando sotto la crosta terrestre asciutta. Ma finora non c’era una vera e propria legislazione in materia, anche perché l’estrazione dei ‘noduli polimetallici’, come si chiamano le immense sedimentazioni rocciose oceaniche ricche di metalli e minerali, era antieconomica. Nel passato vi hanno investito canadesi, cinesi e giapponesi, e negli ultimi anni anche le isole del Pacifico come Papua Nuova Guinea, Fiji, Tonga e altre. Mentre le grandi multinazionali dell’estrazione come Rio Tinto e BHP Billiton se erano tenute alla larga. Oggi tutti cercano di entrare nel gioco.
Le diciassette licenze finora accordate dalla Isa si riferiscono alla zona sudorientale del Pacifico (qui la mappa) dove si stimano ci siano quantità immense di nickel, rame e cobalto. Una delle ultime licenze, come appare dalla mappa di prima, è stata accordata a una sussidiaria inglese del colosso americano della difesa Lockheed Martin, sempre tra i primi a fiutare gli affari. Ed ecco che, come conseguenza, le Nazioni Unite hanno deciso di legiferare sulla concessione delle licenze in senso assolutamente permissivo. Aprendo enormi contraddizioni, come appare dal documento della stessa Isa quando si liquida la questione ambientale con il controsenso che “finché non si scava, non si sa quanto si può incidere”. E così, se diversi ricercatori si sono opposti a questa liberalizzazione sulla base che l’estrazione mineraria è non sostenibile di per sé, che sia fatta in mare o su terra, altri sono entrati nello specifico.
Come dice Paul Tyler, biologo al National Oceanography Centre, si metterebbero a rischio molte specie di animali, destinate all’estinzione. Oppure, come spiega Richard Wysoczanski, fisico marino al National Institute of Water and Atmospheric Research (Niwa), la vita a quelle profondità dipende dallo zolfo più che dall’ossigeno, e gli scavi libererebbero particelle di zolfo che entrerebbero nella catena alimentare oceanica modificandola in peggio: fino al pesce sulla nostra tavola. Inoltre, c’è il problema della sicura distruzione delle sorgenti idrotermali e del probabile rilascio di radiazioni, oltre all’annosa questione dello stoccaggio delle scorie. Tutte problematiche bypassate dalle Nazioni Unite, che hanno deciso invece di fare partire la nuova corsa all’oro, come se il pianeta non ne avesse sopportate abbastanza.

Regione Lazio, i dirigenti sotto inchiesta e condannati restano anche con Zingaretti

i saggi di una volta dicevano "cambiano i sonatori ma la musica è sempre quella" casta e paria intoccabili con la Polverini e con Zingaretti
Cambia il presidente della Regione, ma al timone delle direzioni di settore restano le stesse persone. Tra questi De Filippis che per la Corte dei Conti deve risarcire l'ente per un danno erariale di 750mila euro e Fegatelli indagato per associazione a delinquere
Nicola Zingaretti
Finita l’era Fiorito e delle tesorerie dei gruppi consiliari con le “spese allegre”, in Regione Lazio è partito il valzer delle nomine di Nicola Zingaretti, che sta riorganizzando la macchina operativa indicando i nuovi dirigenti delle varie strutture. “Nuovi” si fa per dire. In più la selezione non è delle più confortanti viste le considerazioni della Corte dei Conti (e non solo) sull’operato di alcuni di loro (la retribuzione annua lorda per ognuno è di quasi 160mila euro a cui si aggiunge il 30% legato al risultato). Su 12 direzioni per ora sono stati nominati i vertici di 9, tutti interni, alcuni confermati al loro posto dopo il passaggio di consegne tra la Polverini e Zingaretti.
Si parte da Raniero De Filippis, tornato, dopo aver guidato altre strutture, alla direzione di infrastrutture, ambiente e politiche abitative nonostante la Corte dei Conti lo abbia condannato a risarcire la Regione accertando un danno erariale di 750mila euro. De Filippis nel 2002 aveva peraltro patteggiato 5 mesi per abuso d’ufficio e falso ideologico per vicende legate ad una comunità montana di cui era stato commissario liquidatore.
Il suo superiore, Luca Fegatelli, fino al 2010 alla direzione regionale energia e rifiuti, resta alla guida del dipartimento istituzionale e territorio, benché sia indagato per associazione a delinquere e concorso in truffa ai danni dello Stato per la vicenda rifiuti, come riportato dall’Espresso ad ottobre scorso. Innocente fino a condanna definitiva ma non proprio adatto a dirigere anche l’Abecol, l’Agenzia per i beni confiscati alle organizzazioni criminali nel Lazio. Ma è stato nominato da Zingaretti “in considerazione della notevole esperienza dirigenziale dallo stesso maturata all’interno della Regione Lazio, delle conoscenze acquisite e delle capacità di cui ha dato prova” si legge nella delibera firmata dal presidente.
Che dire di Marco Marafini confermato alla direzione della programmazione economica, bilancio, demanio e patrimonio e di Guido Magrini, storico dirigente del bilancio, nominato alla direzione del dipartimento politiche sociali e integrazione? Il loro operato è stato oggetto di alcune censure da parte della Corte dei Conti nell’ultimo referto del dicembre scorso, specificatamente per l’aspetto delle consulenze, contestando all’amministrazione ed alle relative Direzioni regionali di non aver “contezza diretta degli incarichi consulenziali dalle stesse affidati, della somma impegnata, dei nominativi dei consulenti incaricati, degli oggetti degli incarichi, con la conseguente impossibilità di effettuare un reale monitoraggio della spesa effettuata a tale titolo” si legge nel documento. In particolare alle strutture di competenza di Marafini e Magrini si chiede conto di alcune consulenze esterne ed esternalizzazioni di servizi “per più di 2 milioni di euro”.
Alla direzione agricoltura e sviluppo rurale è stato confermato Roberto Ottaviani indagato a Viterbo per l’inchiesta “macchina del fango” che coinvolge, tra gli altri, l’ex assessore regionale all’Agricoltura Angela Birindelli, il giornalista Paolo Gianlorenzo e il sindaco di Viterbo Giulio Marini. I filoni sono tanti e vari, compresa la presunta campagna di stampa a pagamento contro il nemico della Birindelli Francesco Battistoni, ex assessore all’agricoltura rimpiazzato proprio dalla Birindelli. In qualità di responsabile della direzione interna all’assessorato, Ottaviani avrebbe firmato molte delle carte acquisite dagli investigatori e forse anche la delibera che impegnava l’assessorato a stanziare 18mila euro in favore di un quotidiano all’epoca diretto da Gianlorenzo. Pubblicità, dicono gli indagati. Ma il pm Siddi vede in quella somma il prezzo della corruzione contestata tanto alla Birindelli quanto a Gianlorenzo. La contropartita alle presunte manganellate mediatiche sugli avversari dell’assessora. L’ipotesi di reato per Ottaviani è abuso d’ufficio.
Sarà forse anche per questi risultati che le valutazioni relative al raggiungimento degli obiettivi per il 2012, come previsto annualmente dalle normative sull’efficienza e merito nella pubblica amministrazione, non sono ancora state fatte. La legge regionale prevede una priorità nella nomina dei dirigenti di prima fascia che non abbiano demeritato. Alcuni dei designati, non tutti, effettivamente rientrano in questa casistica ma non sono stati valutati e quindi non è stato possibile stabilirne i meriti o i demeriti.
Singolare è anche uno dei passaggi che si legge nelle delibere di nomina “l’attuazione del presente provvedimento resta subordinato alla verifica dei requisiti in materia di inconferibilità e incompatibilità di cui al decreto legislativo 8 aprile 2013 n. 39”. In sostanza si rimanda ad un successivo momento la verifica della compatibilità o meno dell’incarico di vertice dirigenziale con la nuova legge anticorruzione che non permette ai condannati per delitti contro la pubblica amministrazione, anche in via non definitiva, di ricoprire incarichi pubblici per 5 anni. Normalmente si verifica prima la compatibilità per un determinato ruolo di vertice o pubblico e poi, nel caso, si conferisce l’incarico non viceversa.
Le cose, per dire il vero, non vanno molto meglio sul fronte dei fiduciari politici. A cominciare dal capo di gabinetto dello stesso Zingaretti, Maurizio Venafro, che rivestiva lo stesso incarico alla Provincia. Venafro in attesa di processo, da anni, per una vecchia vicenda riguardante la società All Clean, una partecipata pubblica voluta dall’allora sindaco di Roma Francesco Rutelli per cancellare le scritte dei writer principalmente sui treni delle metropolitane. La All Clean, con la presidenza Venafro, è finita nel mirino della magistratura per via del fallimento della Planet Work, socio privato della All Clean, una coop riconducibile a Pierpaolo Ferilli (il fratello dell’attrice Sabrina Ferilli) e Giulio Saraceni. Secondo l’accusa, col fallimento della Planet Work, sarebbe emersa una contabilità che proverebbe la distrazione di risorse economiche in favore di società facenti capo al Ferilli. Sempre l’accusa, sostiene che Venafro, avrebbe coperto queste attività proprio come presidente della All Clean. L’accusa per lui ed altri è di concorso in bancarotta fraudolenta.
Per finire l’assessore all’agricoltura Sonia Ricci che proprio qualche giorno fa è stata rinviata a giudizio dal gup del tribunale di Latina per una vicenda legata ad un incendio in un’azienda agricola di Sezze, la Agroama. E’ imputata per un rogo di rifiuti con esalazioni nocive per la salute pubblica avvenuto nel settembre 2010, proprio quando era al vertice della società agricola in questione. “Immagina un nuovo inizio”, era il leitmotiv della campagna elettorale di Zingaretti: chissà se i cittadini laziali sognavano di cominciare proprio cosi.

giovedì 30 maggio 2013

Garante Aia a Letta: “Commissionare Ilva”. Soluzione entro il 5 giugno

Nessun decreto nel Consiglio dei ministri di venerdì. Esposito scrive al premier che il polo siderurgico è una "nave senza noccheri in gran tempesta", dopo le dimissioni di 34 fra tecnici, ingegneri capi e dirigenti. Vendola: "La proprietà non è affidabile"

Garante Aia a Letta: “Commissionare Ilva”. Soluzione entro il 5 giugno
E’ ancora presto per risolvere l’intricato caso dell’Ilva di Taranto. Il ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, ha avvertito che non ci sarà un decreto nel Consiglio dei ministri di venerdì, al termine dell’incontro, a palazzo Chigi, fra governo e parti sociali. Una riunione in cui “è emersa una unità di intenti per assicurare risanamento ambientale e continuità produttiva”, ha spiegato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Filippo Patroni Griffi, ma in cui il governo – hanno riferito i sindacati – non ha “delineato una soluzione determinata e univoca”, assicurando che arriverà prima del 5 giugno, quando è convocata l’assemblea dei soci dell’azienda, dopo le dimissioni del cda di sabato scorso.
Il giorno del provvedimento “più efficace”, che sarà “nel rispetto delle decisioni della magistratura” ha spiegato Patroni Griffi, potrebbe essere martedì prossimo, 4 giugno, quando il premier Enrico Letta riferirà alla Camera sulla crisi dell’Ilva, come richiesto stamattina dai parlamentari pugliesi del Pdl. Dunque, martedì potrebbe essere convocato un Cdm straordinario per il via libera al decreto. I giuristi stanno cercando la forma migliore per integrare la legge 231 (cosiddetta “salva Ilva”), che imponga le misure di risanamento contenute nell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale), visto che dalle ispezioni è emerso che la proprietà non le ha applicate tutte come prescritto. La legge evoca il commissariamento, ha detto Orlando, ma “non è ben definito”.
Un “commissariamento temporaneo dei vertici limitato all’attuazione dell’Aia” è la richiesta del garante dell’attuazione dell’Autorizzazione, Vitaliano Esposito, che in una lettera al premier Letta e ai ministri Flavio Zanonato (Sviluppo economico), Orlando e Beatrice Lorenzin (Salute), spiega che oggi il polo sigerurgico è una “nave senza nocchieri in gran tempesta”, dopo le dimissioni di 34 fra tecnici, ingegneri capi e dirigenti perché, dicono, non ci sono più le condizioni per andare avanti dopo il decreto di sequestro di beni della Riva Fire, la società che controlla l’acciaieria, sino ad un massimo di 8,1 miliardi, firmato dal gip di Taranto Patrizia Todisco.
La soluzione allo studio, ha confermato Zanonato, è un commissario unico o un commissario ad acta per il risanamento, con l’azienda che continua a gestirsi. Ma la strada di un commissario non piace al Pdl e anche se limitato al solo risanamento ambientale dovrebbe essere concordato con l’Ilva. E non piace anche a Confindustria, che chiede che la gestione resti in mano agli imprenditori oppure ai loro rappresentanti. I sindacati avvertono che la tensione sta salendo e chiedono la piena applicazione della legge dicendosi anche favorevoli al commissariamento, purché siano tutelati posti di lavoro, salute e ambiente.
Per il commissariamento si schiera invece il governatore della Puglia, Nichi Vendola, perché “la proprietà non è stata un interlocutore affidabile” ed “è difficile immaginare che chi ha operato per conto della famiglia possa operare per conto dello stato nel commissariamento”. Il sottosegretario allo Sviluppo Economico, Claudio De Vincenti, infine, ribadisce che “il sequestro dei beni e dei conti correnti rende molto difficile realizzare gli investimenti che possano dare attuazione all’Aia e rende più difficile alimentare l’attività quotidiana dello stabilimento”.

Milano, terra all’arsenico in ex fabbrica di armi chimiche. Ma l’area è off-limits

Tra le case di Riozzo di Cerro al Lambro, nel milanese, è abbandonata da decenni l'area della Saronio, che durante la guerra produceva gas letali per l'esercito di Mussolini. E' di proprietà del Ministero della Difesa e nessuno può entraci, ma le poche analisi fatte dimostrano una concentarzione del veleno superiore ai limiti di legge. Mezzi (Sel): "Ritardo clamoroso nelle informazioni"

Area Saronio
Spaventa ancora l’area occupata un tempo dalla fabbrica di armi chimiche Saronio, che oggi si scopre essere inquinata dall’arsenico. Siamo a Riozzo di Cerro al Lambro, vicino a Melegnano e quindi a pochi minuti da Milano. Eppure qui, nel cuore di una delle aree più urbanizzate di Lombardia, esiste il sito abbandonato (circa 25mila metri quadrati) di una fabbrica che almeno sin verso il 1943 produceva armi per la guerra chimica ad uso degli eserciti di Mussolini.
L’area è di proprietà del Ministero della Difesa ed è quindi inaccessibile. Le polemiche però non mancano. Da quando la Saronio, colosso della chimica italiana, abbandonò il territorio ed in particolare il vicino impianto di produzioni di vernici di Melegnano, ovvero verso la fine degli anni ’60, dell’impianto militare non se n’è saputo più nulla.
La zona è off-limits e nessun ente civile, come Asl e Arpa, ha mai potuto metterci piede per misurare il livello di inquinamento. Nel frattempo palazzine, capannoni, parchetti pubblici e piste ciclabili sono cresciute attorno, “ma il ritardo col quale filtrano informazioni sui livelli di inquinamento e sui tempi di un’eventuale bonifica, sono davvero clamorosi” denuncia Pietro Mezzi, consigliere in Provincia a Milano per Sel ed ex sindaco di Melegnano.
E come dargli torto? Il documento ufficiale più recente è una relazione dell’Arpa di Milano del gennaio del 2012 che solo oggi è resa pubblica e che riferisce di un sopralluogo fatto presso l’ex azienda chimica, nonché di un’attività di carotaggio eseguita dall’Esercito, ma solo nel 2010. Quest’ultima, dalla chiusura dell’impianto, è l’unica ispezione fatta – che sia dato a sapersi – sui livelli di inquinamento.
L’Esercito continua a mantenere a riguardo il più stretto riserbo, ma attraverso la relazione dell’Arpa qualcosa in più finalmente si sa. Prima di tutto che sono stati prelevati “5 campioni di terreno” attraverso i quali si è appreso che “le concentrazione di arsenico riscontrate in un campione di terreno, risultano essere al di sopra dei limiti previsti per area a destinazione residenziale”.
“Ciò dimostra la veridicità di quanto avevo previsto anni fa, ovvero la presenza di questo pericoloso inquinante” dice Edoardo Bai, ex Direttore del dipartimento prevenzione dell’Asl di Melegnano, che aggiunge: “Nonostante siano stati fatti, in un zona vastissima, solamente 5 prelievi, uno di questi mostra un eccesso dell’elemento incriminato. Del resto l’arsenico era utilizzato per la realizzazione della Lewisite, uno dei gas utilizzati nella guerra chimica di Mussolini. Ma cinque prelievi su 25 mila metri quadri di area non possono bastare”.
Questo in realtà lo sostiene anche Arpa, che ha ribadito “di sottoporre il sito alla caratterizzazione”, “ovvero – spiega Bai – ad un prelievo di ‘carote’, cioè di porzioni cilindriche di terreno. Ma facendone molte di più che 5. Perché farne 5 o farne 200 di prelievi è diverso, perché il terreno può essere monitorato in maniera più dettagliata, individuando con precisione dove c’è inquinamento e dove non c’è n’è”.
“Mi domando – termina Bai – come mai le autorità non procedano più celermente e obblighino l’esercito a fare quanto stabilito per legge. È  come se ci fosse una sorta di rispetto eccessivo per l’autorità militare, proprietaria dell’area. Invece questa deve obbedire alla legislazione italiana come tutti gli altri. Che intervenga il comune di propria autorità, perché se c’è arsenico nel terreno questo potrebbe penetrare in falda e portare danni ben maggiori”.

mercoledì 29 maggio 2013

Ilva Zanonato apre all'ipotesi del commissariamento

IL MINISTRO dello Sviluppo economico,
Flavio Zanonato, apre all’i p o te s i
di “commissariamento” dell’Ilva di
Taranto, l’azienda di Emilio Riva a cui i
magistrati hanno sequestrato 8,1 miliardi
di beni (senza però trovarli).
Parlando con i giornalisti a Bruxelles, a
margine della riunione dei ministri
dell’Industria dell’Ue, Zanonato ha ribadito
quanto detto nei giorni scorsi e
cioè che il governo farà in modo che le
prescrizioni dell’Aia (autorizzazione
integrata ambientale) “siano effettivamente
rispettate”. Però, ha aggiunto,
il commissariamento dell’Ilva “è
un’ipotesi a cui stiamo lavorando”.
Quanti ai tempi per una soluzione, la
previsione del ministro è per “i prossimi
giorni, sicuramente”. Zanonato
ha anche avuto un incontro con Antonio
Tajani, vicepresidente della
Commissione Ue, e che sta cercando
fondi a livello europeo, per sostenere
l’acciaio Ue contro la competizione
del sud-est asiatico. La Commissione
varerà il piano il prossimo 11 giugno e
lì si vedrà l’entità delle cifre a disposizione.
Secondo Tajani si potranno
utilizzare anche risorse della Banca
europea degli investimenti che all’I l va
ha già destinato 400 milioni di euro
nel 2012 Il fatto quotidiano 30 maggio 2013

Lazio spariti pure i fondi per i bandi antimafia

LAZIO SPARITI I FONDI BANDI ANTIMAFIA
Un milione di euro destinato dalla Regione Lazio
alle associazioni per gestire i beni confiscati ai
mafiosi sono spariti. Lo ha rivelato l’associazione
Anffas di Ostia che, dopo essersi aggiudicata
un bando, non ha ancora ricevuto i quasi 200
mila euro di finanziamenti. Ansa

Isola Capo Rizzuto incendiata la casa di famiglia dell'ex sindaco antimafia

INCENDIATA LA CASA DI FAMIGLIA
D E L L’EX SINDACO ANTIMAFIA
A ISOLA CAPO RIZZUTO PRESA DI MIRA L’ABITAZIONE DI CAROLINA
GIRASOLE. SCONFITTA ALLE ELEZIONI E ABBANDONATA DAL PD - PRIMO CITTADINO
Gianluca Bruno, eletto
con il 51% dei voti,
è stato fotografato
durante una cena
assieme al figlio
del boss Arena

di Enrico Fierro
Avete visto il fuoco,
le macerie, la
distruzione? Ecco:
questo è il
premio dopo cinque anni da
sindaco”. Carolina Girasole,
una volta sindaco antimafia
di Isola Capo Rizzuto, Calabria,
ha subìto l’ultimo affronto.
Ignoti, come recita
stancamente il verbale dei
Carabinieri, hanno dato fuoco
alla sua casa al mare, una
villetta di due piani dove lei e
la sua famiglia trascorrevano
i mesi estivi. Ignoti che in
paese conoscono tutti, ignoti
notissimi che hanno un volto
e interessi da proteggere.
Perché qui comanda la
‘ndrangheta, quella che ancora
fa capo alla cosca degli
Arena, e dettano legge i comitati
d’affari che hanno in
mano tutto, la politica, i soldi
e la speculazione edilizia
sulla costa.
CAROLINA, la professoressa,
dava fastidio e l’hanno tolta
di mezzo con le peggiori armi
della politica. Domenica
scorsa anche qui si è votato e
la sindaca antimafia è stata
spazzata via. Il Pd, il suo partito,
non l’ha sostenuta, non
poteva, non l’ha mai amata e
alla fine ha deciso di candidare
Nuccio Milone, “comu -
nista tutto d’un pezzo”, per
sua stessa definizione.
Milone era stato già sindaco
di Isola per 11 anni. Le cronache
dicono che la sua amministrazione
non fece certo
sforzi titanici per fermare l’abusivismo
edilizio, né lo
scempio sulla lunghissima
costa. Il Viminale ritenne
che anche all’epoca, bandiere
rosse a parte, i boss fossero i
veri padroni del Comune, i
prefetti sciolsero l’ammini -
strazione per infiltrazioni
mafiose e da Roma mandarono
i commissari.
UNA PARTE del Pd ha appoggiato
la Girasole, ma non
è bastato. Alla fine, col 51%
dei voti e al primo turno, ha
vinto il Pdl che ha candidato
Gianluca Bruno. Già vicepresidente
della Giunta provinciale
di Crotone, Bruno è
assurto agli onori della cronaca
nazionale per una cena
elettorale. Era l’aprile del
2008 e si festeggiava l’elezio -
ne a senatore di Nicola Di
Girolamo, c’erano molti dirigenti
del Pdl del Crotonese,
Gennaro Mokbel, fascista e
faccendiere, e Fabrizio Arena,
il figlio prediletto del boss
Carmine. Si alzano i bicchieri
e si brinda alla salute del
“senatore nostro”. Nel 2010
Fabrizio Arena verrà arrestato
e processato per diversi
omicidi, riciclaggio e associazione
mafiosa, a casa sua
la polizia trova documenti di
enti pubblici su appalti e affari
vari, la Provincia di Crotone
finisce nel mirino dell’antimafia,
ma il ministro
Cancellieri decide di non
procedere allo scioglimento
per mafia. Cose che succedono
in Calabria.
“ABBIAMO lavorato in un
clima di grandissima tensione
– dice Carolina Girasole
ai microfoni de ilfattoquotidiano.
it – con intimidazioni,
fango e attacchi continui. Ci
sono intimidazioni visibili,
ma poi c’è una strategia silenziosa
che fa ancora più
male. Così hanno fatto il gioco
della ‘ndrangheta e di chi
non ci voleva al Comune”.
Nei cinque anni in cui è stata
sindaca, Carolina ha dato fastidio.
Troppe foto con don Luigi Ciotti sui terreni strappati
ai boss, troppi clamori, e
poi quella sua candidatura
alla Camera nelle liste di
Monti.
Bruno, il vincitore, lunedì
scorso era raggiante. Le foto
di quella cena compromettente
nessuno le ricorda più,
non fanno scandalo a Isola. E
allora eccolo, baldanzoso, dichiarare
al Corriere della Sera,
che “da oggi la lotta ai clan si
fa davvero, altro che chiacchiere”.
Perché in Calabria più delle
pallottole uccidono i veleni,
ti schieri contro la mafia e
allora si scava nelle tue parentele,
anche con la Girasole
hanno fatto la stessa
operazione andando a pescare
un parente troppo vicino
ai clan. “Smettetela di bervi
tutte le fesserie della Girasole
– dice nelle interviste dopo il
voto Nuccio Milone, il candidato
sostenuto dal Pd – e
poi lei non aveva neppure la
tessera”.
Carolina Girasole guarda il
fumo e la distruzione della
sua casa al mare, le lacrime le
segnano il volto quando pensa
ai cinque anni passati, alle
minacce e alle tre auto che le
hanno incendiato. Una donna
sola nella terra dove la politica
brinda con i boss.
Si è sentita isolata dal Pd, le
chiediamo? “Chiedetelo al
commissario del partito, l’onorevole
D’Attorre, e al partito
nazionale”.
twitter @enricofierro1 - Il fatto quotidiano 30 maggio 2013

Alex Zanotelli: tangenti sulla vendita d'armi quanto va ai partiti?

APPELLO - TANGENTI SULLA VENDITA D’ ARMI : QUANTO VA AI PARTITI?
di Alex Zanotelli
Padre Alex Zanotelli ha lanciato un APPELLO dal titolo : TANGENTI SULLA VENDITA D’ ARMI : QUANTO VA AI PARTITI?
L'appello ha due scopi:
1.  Una richiesta al parlamento affinchè istituisca  una commissione incaricata di investigare la connessione tra vendita d’armi e politica che elimini il Segreto di Stato su tali intrecci.
2.  Un appello a tutti i gruppi, associazioni, reti, impegnati per la pace, a mettersi insieme, a creare un Forum nazionale come è stato fatto per l’acqua.
Per sottoscrivere l'appello di p. Alex si può cliccare sul seguente link:
La Redazione del sito www.ildialogo.org


Mercoledì 29 Maggio,2013 Ore: 09:04

nota de Icittadini contro le mafie sull'escalation di omicidi-esecuzioni a Roma, Pomezia, Anzio, Nettuno, Aprilia "la quinta mafia"

In una nota stampa il presidente dell’Associazione  “ I CITTADINI CONTRO LE MAFIE E LA CORRUZIONE”  Antonio Turri  ,segnala all’attenzione del Ministro dell’Interno e del Prefetto di Roma ,come nella Capitale sia in atto sin dal 2010 una violenta lotta per il controllo del mercato criminale degli stupefacenti dell’usura e del gioco d’azzardo.  Con gli  omicidi-esecuzioni di piccoli pregiudicati delle periferie romane della giornata passata si evidenzia ancora una volta come una criminalità di piu’ elevato spessore stia operando a Roma con metodi chiaramente mafiosi. Per Turri questi ultimi omicidi cosi come la maggior parte di quelli consumati nell’anno 2011, sono il segnale di come un gruppo criminale emergente stia diffondendo il terrore tra i “naviganti solitari “del crimine capitolino. Chi sbaglia paga. E’ questo il messaggio che si deve raccogliere dal classico modus operandi di attingere le vittime con il colpo in testa. I pregiudicati romani, i piccoli spacciatori, gli usurai di borgata, chi attinge i propri proventi dal gioco d’azzardo o dallo sfruttamento della prostituzione, ora sa  che se non si uniforma alle volontà criminali dei più forti ed organizzati nuovi boss della malavita romana,sostiene Turri, morirà senza scampo alcuno.
A Roma e nelle città del litorale, sino a Pomezia, Anzio, Nettuno e Aprilia, camorra,’ndrangheta e mafia siciliana fanno da scuola e da incubazione per la nascità  di una più complessa aggregazione criminale, che da anni I Cittadini contro le mafie, chiamano “ LA QUINTA MAFIA” che ingloba criminalità autoctone e straniere in un mix esplosivo che secondo Turri si sta sottovalutando nella sua reale pericolosità e capacità di espansione.Gli omicidi di mafia avvenuti la scorsa estate sul litorale laziale, a Nettuno e Terracina, quelli dei boss campani Pellino e Marino, sono anch’essi il segnale di una possibile collaborazione tra mafie meridionali e Boss della “Quinta Mafia”.
Per Turri le difficoltà  ad individuare gli autori di questi gravissimi fatti di sangue, sono il chiaro sintomo di come sia da ritenersi attiva anche a Roma una criminalità organizzata di tipo mafioso che deve essere combattuta con  mezzi e  metodiche repressive appropriate, specie per la peculiarità dei mercati criminali della capitale e per la consistente influenza delle mafie straniere, russa, cinese e albanese, solo per citare le più attive. Minimizzare non serve più a nulla.

martedì 28 maggio 2013

carbone in tribunale Enel contro Greenpeace per uno al giorno

Carbone in tribunale, Enel contro Greenpeace - LA DISPUTA Il cortometraggio “Uno al giorno” d e nu n c i a l’impatto sulla salute delle centrali inquinanti, l’azienda querela per diffamazione regista e sceneggiatore - LA CAMPAGNA Gli ambientalisti si basano su uno studio di un’agenzia europea La replica : “Attacchi assurdi, le nostre attività sono tutte nel rispetto della legge e dobbiamo tutelare la nostra reputazione”di Valeria Pacelli Si sposta in tribunale lo scontro tra il colosso italiano dell’elettricità, Enel, e il gruppo ambientalista Greenpeace. Una disputa che nasce dopo la diffusione di un cortometraggio dal titolo “Un morto al giorno”, quattro minuti in cui vengono portati in scena i dati sull’inquinamento prodotto dalle centrali a carbone dell’Enel. Numeri preoccupanti che parlano di un decesso al giorno. L’azienda tuttavia per tutelare la propria scelta di produzione ha deciso di denunciare gli autori del cortometraggio. Il regista Mimmo Calopresti e l’autore della sceneggiatura Manfredi Giffone così sono finiti nel registro degli indagati per diffamazione. Il video, pubblicato lo scorso novembre, contiene la denuncia nei confronti della scelta dell’Enel di creare energia proprio grazie a centrali a carbone alcune già presenti in Italia Stando ai dati riportati da Greenpeace non sono poche le vittime causate da questo sistema di produzione. Precisamente 366 decessi l’anno. Enel produce il 41 per cento dell’elettricità grazie al carbone, ma anche danni per oltre 1,7 miliardi di euro l’anno, dice Greenpeace. Nel corto si mette in scena proprio il carbone che uccide. Un sacchetto con il combustibile che, una volta aperto dal cliente, si rivela letale. LA CAMPAGNA che Greenpeace porta avanti si basa sui dati forniti da un rapporto della fondazione olandese Somo e allo studio della Eea (European Environmental Agency), l’agenzia per l’ambiente dell’Unione Europea che individua i 20 impianti di produzione di energia più inquinanti in Europa. Per quanto riguarda l’Italia, al primo posto c’è la centrale a carbone dell’Enel “Fe - derico II” di Brindisi, i cui costi esterni (calcolati dall’Eea) ammontavano a 707 milioni di euro nel 2009. Nel rapporto del gruppo ambientalista si legge: “I costi esterni delle centrali a carbone sono di 1,7 miliardi di euro, oltre il 40% dell'utile che Enel ha ottenuto a livello consolidato, in tutto il mondo, nel 2011. Se alle attuali centrali si dovessero aggiungere quelle di Porto Tolle e Rossano Calabro - che potrebbero presto essere convertite da olio a carbone - i costi esterni potrebbero toccare i 2,5 miliardi di euro all’anno, suddivisi in costi per la salute, danni alle colture agricole, da inquinamento dell’aria e da emissioni di Co2”. E infatti anche per la centrale termoelettrica di Porto Tolle, un comune di 10mila abitanti in Veneto, a gennaio del 2011 è stata autorizzata la conversione a carbone. Contro questa campagna, Enel ha avviato più di una azione legale. Una causa è stata già discussa in sede civile. Alla fine dello scorso anno è stata emessa una sentenza dal tribunale civile di Roma che tuttavia ha dato ragione agli ambientalisti: i dati diffusi non sono lesivi nei confronti dell’azienda, non c’è stata quindi alcuna diffamazione. Ora si apre un nuovo capitolo processuale. L’azienda sulla questione precisa: “Le attività sono sottoposte alle norme e ai controlli delle istituzioni locali, nazionali e internazionali e si svolgono nel pieno rispetto delle leggi. Circa metà dell’energia elettrica che produciamo è priva di qualunque tipo di emissione, compresa l’anidride carbonica. Solo il 12% dell'energia elettrica italiana è prodotta con il carbone contro una media europea del doppio”. L’ Enel “non è contraria al diritto di critica e di satira, ma è costretta a tutelare la propria reputazione di fronte a un’assurda accusa di strage premeditata e continuata per il rispetto dovuto ai 75 mila dipendenti e alle decine di milioni di stakeholder”. Il fatto quotidiano 29 maggio 2013

Calopresti accusato per film Greenpeace contro i danni del carbone dell'Enel

Sotto accusa per il mio film, non intendo fermarmi - L’APPELLO “Oggi tutti i deputati e senatori riceveranno una copia del video Qualcuno chiederà alla società di essere più responsabile?”di Mimmo Calopresti La scorsa estate ho deciso di collaborare con Greenpeace per far conoscere una cosa di cui si parla troppo poco. Il carbone, la fonte energetica più sporca e dannosa per la salute umana e il clima, causa ogni anno centinaia di morti premature nel nostro Paese. In Italia il carbone ha un nome famoso: Enel. Questa azienda, che con quella fonte produce quasi il 50% dei suoi kilowatt, rappresenta circa i tre quarti della produzione nazionale. Gli studi commissionati da Greenpeace a un istituto di ricerca indipendente dicono che l’inquinamento delle centrali a carbone di Enel causa in Italia una morte prematura al giorno e 1,8 miliardi di euro di danni l’anno alla nostra salute, all’ambiente e all’economia. Questi dati, peraltro, sono riferiti all’anno 2009: da allora la produzione di Enel col carbone è notevolmente cresciuta. Per raccontare tutto ciò, con Greenpeace ho realizzato un cortometraggio – Uno al giorno – al quale hanno prestato il loro talento molti importanti attori – Haber, Quartullo, Ceccarelli, Briguglia – e musicisti fantastici come i Subsonica e Saro Cosentino. Abbiamo raccontato di come Enel non sia solo un’azienda che vende elettricità: è anche un colosso che la produce, e fin quando lo farà col carbone sarà causa di enormi danni. ENEL NON HA GRADITO: non ha risposto alle contestazioni che le abbiamo mosso, ma ha sporto denuncia “con - tro ignoti”. Risultato: il sottoscritto e l’autore della sceneggiatura, Manfredi Giffone – già autore di una graphic novel sulla mafia, Un fatto umano, divenuta un caso editoriale – risultano attualmente indagati in un procedimento penale. Al momento ancora non conosciamo i reati che ci verrebbero contestati. Peraltro non è il solo procedimento in corso su quel cortometraggio: potremmo presto (noi o Greenpeace) risultare indagati anche in un’altra indagine, di cui conosciamo solo un numero di protocollo. Non mi era mai capitato, in tanti anni di lavoro e avendo già affrontato temi controversi, di finire indagato in un procedimento penale. Greenpeace, invece, è già stata trascinata in tribunale da Enel più volte. E proprio nelle vicende giudiziarie pregresse sta il paradosso di questa storia: i dati che abbiamo utilizzato come base per il nostro lavoro sono già oggetto di una sentenza, c’è già stato un giudice che li ha ritenuti veridici e ha stabilito che diffonderli è legittimo. Ma a Enel questo non basta. Una multinazionale con un fatturato da 80 miliardi di euro può spendere quanto vuole in avvocati per tentare di silenziare me, Greenpeace o chiunque altro. Può uscire sconfitta dalle aule giudiziarie, come le è già successo, sapendo comunque che le sue denunce, le sue querele, i suoi ricorsi hanno un potere intimidatorio, possono rallentare e ostacolare la protesta, consigliare di desistere. Io non desisto, Greenpeace non desiste. Cerco di difendere il clima e l’aria che respiriamo, la salute di tutti e il futuro del Paese. Lo faccio perché sono convinto che l’energia pulita sia oggi un’alternativa praticabile e preferibile, un’opzione già consolidata in tutti i Paesi che guardano al futuro pensando alla sostenibilità, all’occupazione, alle generazioni che verranno. Non posso trattenermi, quindi, dal porre una domanda alla politica e al governo. Enel è un’azienda largamente controllata dallo Stato e i suoi vertici sono nominati direttamente dal ministero del Tesoro. È legittimo che un colosso con una tale quota di responsabilità pubblica mostri di ignorare completamente le critiche che le vengono mosse, non dia alcuna rassicurazione sugli impatti sanitari, ambientali ed economici del suo business e proceda solo a colpi di carte bollate? Oggi, intanto, a ogni parlamentare della Repubblica Greenpeace recapiterà una copia del mio cortometraggio. Qualcuno si farà avanti per chiedere a Enel di essere un’azienda responsabile? Il fatto quotidiano 29 maggio 2013

il capitalismo buono pianta gli alberi Clayton Christensen

CLAYTON CHRISTENSEN Il capitalismo buono ovvero il segreto di piantare alberi prima che serva l’o m b ra di Salvatore Cannavò Clayton Christensen insegna alla Harvard Business School, è un consulente di impresa tra i più quotati degli Stati Uniti e quando si è ritrovato a curare un difficile cancro ha avuto l’idea di scrivere questo libro. A quel punto della sua vita, Christensen aveva accumulato molte competenze sulla vita delle aziende Usa, veniva chiamato in consulenze per risolvere problemi importanti o per illustrare la sua teoria sull’“ innovazione dirompente”. Il cancro e l’abitudine di chiudere l’anno universitario con una lezione sulle vere motivazioni della vita e sui fattori di felicità lo convinsero di poter coniugare le teorie sulle società e sulle tecniche manageriali con la vita privata, il rapporto con i figli o quello di coppia. Ne viene fuori un mix tra manuale filosofico e manageriale che non indica buone pratiche di vita quotidiana, ma le incastona in teorie economiche. Christensen cattura l’attenzio - ne citando aneddoti storici sulle aziende degli Stati Uniti. Come l’Honda, ad esempio, sia riuscita a “conquistare l’Ame - rica... per caso” un racconto che aiuta a capire le strategie, “intenzionali o inattese” per la propria carriera. Oppure come il segreto del successo dell’I ke a possa illuminare il rapporto di coppia. Soprattutto, su un piano ancora più generale della teoria, si spiega la differenza tra “capitale buono” e “capitale c a t t i vo”. Una distinzione che Christensen traduce in una efficace traduzione logica: non bisogna piantare alberi quando serve l’ombra. Occorre farlo prima. Un precetto reimpiegato nell’importanza che si decide di dedicare ai figli. Il legame tra i due elementi è dato da una profonda convinzione dell’autore: “Se vuoi aiutare gli altri, allora scegli di fare il manager. Se svolta bene si tratta di una delle professioni più nobili”. E così, magari, dallo studio su come sviluppare la vendita di frappè ne può venire fuori l’idea giusta per dialogare con il coniuge la sera tornando a casa. Un libro sul capitalismo “b u o n o”, da perfetto “stile a m e r i c a n o”. Che probabilmente non esiste, ma che è divertente leggere. Il fatto quotidiano 29 maggio 2013

Ilva i padroni delle ferriera verso il commissariamento governo contro i Riva

ILVA, I PADRONI DELLA FERRIERA VERSO IL COMMISSARIAMENTO IL GOVERNO VUOLE ESTROMETTERE I RIVA DALLA GESTIONE, AFFIDANDOLA A BONDI. MA NON HA RISOLTO I PROBLEMI GIURIDICIACCESA DISCUSSIONE Il ministro Orlando vuole togliere alla famiglia i poteri esecutivi, Zanonato e la Cisl spingono per dare più poteri al garante che vigila sulle migliorie ambientalidi Marco Palombi Una soluzione tecnica ancora non c’è, ma il governo pare aver scelto la via da seguire: separare la proprietà dalla gestione dell’Ilva per evitare la chiusura dell’azienda. Tradotto: esautorare - almeno finché non si sarà ottemperato a tutte le prescrizioni dell’Autorizzazione integrata ambientale - la famiglia Riva dai poteri esecutivi. Questa soluzione è stata fortemente caldeggiata fin dall’inizio del lunghissimo vertice governo-azienda di ieri (aggiornato a oggi) dal ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, che alla fine è riuscito a convincere Enrico Letta e Angelino Alfano. La proprietà, ovviamente, e pezzi di sindacato (la Cisl) chiedono invece una soluzione meno “traumatica” per gli attuali equilibri di potere, soluzione che ha anche l’appoggio del ministro per lo Sviluppo economico Flavio Zanonato: magari, è la proposta, si potrebbero concedere poteri più diretti al Garante che già oggi dovrebbe vigilare sulle migliorie ambientali (Aia) in fabbrica (finora, però, s’è limitato solo a constatare le inadempienze). La soluzione allo studio di palazzo Chigi, secondo quanto sostengono fonti ministeriali, è però la nomina di un commissario governativo – probabilmente lo stesso amministratore delegato dimissionario Enrico Bondi – che gestisca l’azienda garantendo contemporaneamente la continuità della produzione, il risanamento ecologico e la “pace” con la magistratura. E qui cominciano i problemi: quale sia lo strumento giuridico a cui appigliarsi per questa prova di forza è una domanda a cui non è affatto facile rispondere. LE IPOTESI sul tavolo sono diverse, ma tutte di difficile applicazione. Per ricorrere, ad esempio, alla legge Marzano o alla Prodi bis - come fu, per capirci, nel caso di Parmalat – bisognerebbe che Ilva fosse un’azienda insolvente, cosa che al momento non è nonostante le alte grida lanciate dalla proprietà dopo i due sequestri ordinati dai tribunali di Taranto e Milano nei giorni scorsi (8,1 miliardi di beni della holding Riva Fire il primo; 1,2 miliardi di beni diretti della famiglia, accusata di frode fiscale, truffa allo Stato e riciclaggio, il secondo). Resta la legge 231 del dicembre 2012, nota alle cronache come “Salva-Il - va”, che qualche appiglio per la detronizzazione della proprietà pure lo offre, ma non così solido come si vorrebbe: l’articolo 1 infatti prevede, in caso di inadempienza dell’azienda nell’applicazione dell’Aia, sanzioni pecuniarie fino al 10% del fatturato che andrebbero irrogate dal prefetto (con tempi di decisione però troppo lenti); l’ar - ticolo 3, invece, prevede che il Garante per l’attuazione dell’Aia possa chiedere anche “provvedimenti di amministrazione straordinaria” fino all’esproprio (articolo 43 della Costituzione), anche se non si capisce bene a chi. Curiosamente, proprio ieri, il Garante in carne e ossa – che risponde al nome di Vitaliano Esposito e guadagna i suoi bei 200 mila euro l’anno – durante una visita all’Ilva ha messo a verbale che “sarebbe meglio non si intervenisse col commissariamento dell’azienda”, attirandosi le ire della cellula di fabbrica di Rifondazione comunista. Purtroppo per lui, comunque, quella è proprio la via stretta su cui lavora, pur tra mille resistenze, il governo: dimostrare le inadempienze dei Riva nell’applicazione dell’Aia ed estrometterli dalla gestione della fabbrica. Qualche dato già c’è. Nella prima ispezione (5-7 marzo) Ispra ha accertato 11 violazioni alle prescrizioni dell’Au - torizzazione ambientale: riguardano, tra l’altro, chiusura dei nastri trasportatori, nebulizzazione di acqua con apposite macchine per la riduzione delle particelle di polveri sospese, superamenti della durata delle emissioni inquinanti e omesse comunicazioni all’autorità competente. L’ISTITUTO ha inviato la relazione al ministero dell’Ambiente e al prefetto la settimana scorsa, chiedendo a quest’ultimo la massima sanzione pecuniaria (il 10% del fatturato). Ora, però, dovrebbero arrivare i dati della terza ispezione: la loro formalizzazione era attesa per il 7 giugno, ma ieri il ministro Orlando ha chiesto ad Ispra di accelerare e consegnare il tutto entro questa settimana. Il governo potrebbe infatti servirsene proprio per giustificare la scelta del com-missariamento. I dubbi legali, però, rimangono nonostante le inadempienze di Ilva: “Stiamo parlando di mettere le mani in un’azienda privata, non è che si può fare così, senza aver chiare le implicazioni giuridiche”, spiega una fonte governativa. E, infatti, sul tavolo resta ancora l’ipotesi di un decreto ad hoc – una sorta di “dl caccia-Riva” – che renda meno franoso il terreno sotto la decisione di Enrico Letta e dei suoi ministri: si potrebbe, per dire, intervenire sull’articolo 3 della legge di Monti scrivendo in maniera chiara che il governo può nominare un commissario se l’azienda non rispetta gli impegni in materia di bonifica ambientale. Il fatto quotidiano 29 maggio 2013

Ilva, Vendola: ‘Serve unità di crisi permanente. Riva? Non siano interlocutori’

per vedere il video http://tv.ilfattoquotidiano.it/2013/05/28/ilva-vendola-serve-unita-di-crisi-permanente-riva-non-siano-interlocutori/234381/
Tavolo interlocutorio quello di questa mattina a Palazzo Chigi tra il governo e la proprietà dello stabilimento Ilva di Taranto, tant’è che tutto è stato aggiornato a questa sera. Il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola: “Spero venga convocato quanto prima un tavolo con tutti gli attori interessati alla crisi dell’Ilva con il presidente del Consiglio ed auspico che si possa formare un’unità di crisi permanente”. Vendola attacca i Riva proprietari dello stabilimento tarantino: “A questo punto, di fronte a ciò che emerge da svariate inchieste, bisogna separare – continua – la sorte della famiglia Riva dalla sorte dell’Ilva per salvare la fabbrica, per far partire con serietà le bonifiche e i processi di ambientalizzazione, bisogna estromettere la famiglia dalla vicenda Ilva”. E aggiunge: “Credo che l’amministrazione straordinaria sia la formula che consenta un vero e proprio commissariamento, i Riva non penso che possano essere mai più interlocutori soprattutto in una fase in cui è necessario rispondere alla domanda di salute e di vita che viene da Taranto e a partire da questa esigenza salvare la fabbrica” di Manolo Lanaro

28 maggio 2013

acqualatina sprechi incontenibili secondo dossier comitato acqua pubblica per pagare errori nel sud pontino

Latina Oggi Martedì 28 Maggio 2013 pagina 5 Latina L’ultimo dossier del Comitato civico sul prezzo pagato per coprire gli errori nel sud pontino Quegli sprechi incontenibili La crisi di Acqualatina e le dispersioni in rete costate 50 milioni in 10 anni Fino al 2011 oltre il 60% dell’acqua non veniva fa t t u r a toCI sono alcune cose ancora non dette tra le cause della crisi finanziaria di Acqualatina e un buon numero di queste viene elencato nell’ultimo dossier del Comitato Acqua pubblica che parte da un dato eclatante, quel- lo relativo ai costi (e ai benefici) delle riparazioni sulla rete. Fin dal 2003 (secondo anno di gestione con servizio idrico in- tegrato ndc) erano stati messi in campo, o così si era detto, «pro- getti per il recupero delle di- spersioni». Un intervento che doveva articolarsi su quattro ambiti: «recupero delle disper- sioni nelle aree pilota, rinnovo di tutto il parco contatori, recu- pero delle perdite in produzio- ne e adduzione, recupero delle perdite amministrative attra- verso l’incrocio di database e censimento sul campo». Que- ste le promesse del 2003. Ma cosa è successo dopo? Molto poco, anzi quasi nulla se ancora oggi nell’accordo per la con- cessione del contratto di solida- rietà è stata offerta quale «con- tropartita» ai sindacati la sosti- tuzione di tutti i contatori, un’azione mirata che dovrebbe portare ad una fortissima dimi- nuzione delle dispersioni, che oltre a pesare sugli incassi rap- presentano un costo di energia. Cioè: la società spende per cap- tare l’acqua e mandarla in rete ma poi a causa delle dispersioni fisiche e delle mancate fattura- zioni non incassa. Questa «pic- cola» lacuna è costata in dieci anni quasi 50 milioni di euro, l’equivalente dell’energia pa- gata per immettere in rete ac- qua che poi a tutti gli effetti è andata persa. Secondo i dati forniti dalla stessa società Ac- qualatina, a tutto il 2011 l’ac - qua non fatturata è pari al 64% e di questa percentuale il 45% è dovuto alle perdite in rete mentre il restate 18% costituisce le cosiddette «perdite ammini- strative» quindi allacci abusivi, bollette non pagate e contatori guasti. In questo modo ogni anno la società di gestione delle acque e della depurazione in provincia di Latina spende cir- ca 5,4 milioni di euro per energia che serve a immettere acqua che nessuno (comunque) pa- gherà mai perché si perde per strada. C’è dell’altro: a suppor- to delle motivazioni che hanno indotto la spa a dichiarare lo stato di crisi c’è (principalmen- te) la morosità di alcune zone dell’Ato4, in particolare di Aprilia. Non viene invece fatto cenno a quanto costa la disper- sione in rete che, casualmente, è gravissima soprattutto al sud, comprensorio che da solo as- sorbe quasi la metà degli inter- venti per riparare la rete e rela- tivi appaltini. Il sud della pro- vincia è esattamente l’area di provenienza geografica del vertice politico e amministrati- vo di Acqualatina, il luogo do- ve si investe di più ma anche quello dove si spreca di più. E tutto questo ha inciso sulla crisi di liquidità. Per quanto nessuno lo abbia ancora notato. Graziella Di Mambro http://latina-oggi.it/public/newspaper/read/hash/4da1322da8f0d10b4c77320206a4157e

Corsa al quirinale

http://vauro.globalist.it/Detail_News_Display?ID=56629&typeb=0

lunedì 27 maggio 2013

Ilva mentre a Roma il governo tratta a Taranto si alzano nubi tossiche

ILVA, A ROMA IL GOVERNO TRATTA A TARANTO SI ALZANO NUBI TOSSICHE IERI L’INCONTRO CON ZANONATO, OGGI VERTICE A PALAZZO CHIGI TUTTO COME PRIMA Il garante: l’azienda viola gli impegni. E dalla fabbrica raccontano di dimissioni in massa dei capi reparto dell’a re a a caldo sequestrata di Francesco Casula Il fatto quotidiano Taranto Tavoli, nuvole e anarchia. Da Roma a Taranto il futuro della fabbrica dei Riva è in tre immagini. Mentre a Roma il governo, con il ministro dello Sviluppo Flavio Zanonato, i sindacati e le istituzioni si incontravano per cercare senza riuscirci una soluzione al nuovo terremoto Ilva, in fabbrica i dirigenti dell’area a caldo si dimettevano in massa e i cittadini di Taranto si risvegliavano all’ombra di una cancerogena nuvola rossa. L’ennesima emissione nociva che dallo stabilimento siderurgico, alle prime luci del mattino, si è sollevata verso la città. Un fenomeno, che i carabinieri del Noe di Lecce nel dossier consegnato un anno fa alla procura chiamano “slopping”, causato dal malfunzionamento degli impianti e che sprigiona nell’aria respirata da operai e cittadini ossido di ferro. UN PROBLEMA che potrebbe essere ridotto se l’azienda avesse un adeguato sistema di captazione delle polveri, ma come i pubblici ministeri scrivono nella richiesta di sequestro di oltre 8 miliardi di euro, in fabbrica “allo stato non si ha evidenza di alcuna iniziativa intrapresa dalla società al fine di ottemperare alle disposizioni prima impartite dai custodi e poi, in parte, confermate” nell’Aia. Nella fabbrica regna il caos. Fonti sindacali rivelano dimissioni in massa dei capi reparto e dirigenti dell’area a caldo, sequestrata a luglio perché ritenuta causa di “malattia e morte”. Dopo l’iscrizione di due nuovi capi re- parto nell’elenco degli indagati, infatti, i quadri aziendali sono terrorizzati dal possibile coinvolgimento nell’inchiesta. Secondo fonti interne alla fabbrica, gli stessi uomini che la scorsa estate avrebbero spinto gli operai a manifestare contro la magistratura, oggi non intendono assumersi alcuna responsabilità. A spaventarli è anche il nuovo sopralluogo, in programma per oggi, degli ispettori del ministero che dovranno valutare lo stato di avanzamento degli adeguamenti. DAL GIORNO del sequestro di 8 miliardi, su cui sta lavorando la Guardia di finanza, l’ufficio centrale delle vendite di Milano è paralizzato, pregiudicando la sopravvivenza di tutti stabilimenti del Gruppo Riva. Eppure tra gli operai serpeggia la speranza che anche stavolta qualcuno possa intervenire per salvare l’azienda. Anche cda di Riva Fire attende un intervento amichevole. In una nota il Gruppo ha espresso forte preoccupazione perché il sequestro “rischia di compromettere l’iter per l’approvazione del piano industriale 2013-2018 avviato da mesi” che “avrebbe consentito sia il rispetto di tutti gli obblighi Aia sotto il profilo industriale e finanziario, sia l’approvazione del bilancio nei termini di legge in situazione di continuità aziendale”. Peccato che proprio ieri il garante dell’Autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva, Vitaliano Esposito, abbia ufficializzato ai vertici dei sindacati ionici “l’accertamento oggettivo di dieci violazioni” agli obblighi imposti proprio dall’Aia all’azienda e che l’Asl di Taranto abbia disposto la distruzione di un’enorme quantità di cozze alla diossina. Solo dettagli per l’azienda che minaccia “ripercus - sioni occupazionali”. Segnali di fumo al governo. Rossi e dannosi come l’ossido di ferro.

Prodi Riva mente sull'Ilva di Taranto ferro vecchio

Prodi: “Riva mente, comprò un gioiello” L’EX ITALSIDER LA PRIVATIZZAZIONE NEL 1994 “Era un gran bello stabilimento, lontano dalla città cresciuta vicino alla fabbrica grazie a una legislazione provvidenziale di Antonio Massari Il fatto quotidiano 28 maggio 2013 L’Ilva era un ferro vecchio? Assolutamente no! Quello di Taranto era un grande stabilimento”. Romano Prodi è a pranzo quando lo raggiungiamo al telefono. In sottofondo c'è un tintinnare di piatti e forchette. Le dichiarazioni di Emilio Riva, patron dell'Ilva cui la Cassazione ieri ha confermato i domiciliari, gli risultano però indigeste. Della situazione attuale, Prodi non parla. Ma a noi interessa tornare ai primi anni Novanta, quando il professore era presidente dell'Iri e, sotto la sua gestione, l'Italsider fu trasformata in Ilva e avviata verso la privatizzazione. “Quando sono arrivato io, l'Ilva, era un ferro vecchio", ha dichiarato Emilio Riva a Giusi Fasano del Corriere della Sera. Chiediamo a Prodi: è la verità? L'ex premier sospira: “No di certo! Taranto era un grande stabilimento, era questo e basta”. Insistiamo: Riva sostiene che “me la sono presa che era un disastro, l'ho rinnovata e oggi è un arnese perfettamente funzionante, nonostante tutto”. Replica Prodi: “Assolutamente no, era uno dei più bei stabilimenti integrati d'Europa. Senza alcun dubbio”. LO CONFERMANO le cifre. L'Italsider nel 1993 può vantare una produzione ai massimi livelli mondiali: una media di 12 milioni di tonnellate di acciaio all'anno. Anche se indebitata per 7 mila miliardi di lire. “Lei creò la Ilva laminati impianti e lasciò i debiti nella vecchia Italsider”, ricostruiamo con Prodi, “che di fatto divenne la prima bad company italiana”. Risposta: “Questo può ricostruirlo lei... Io posso dirle che era un gran bello stabilimento...”. Ancora più bello perché quei debiti per 7 mila miliardi di lire restarono nella vecchia Italsider, destinata alla liquidazione. A Riva andò la parte industriale "ripulita" dalla grossa massa passiva, gli rimasero circa 1.500 miliardi di lire per debiti finanziari. Ben poca cosa, poiché la neonata Ilva era un gioiello con un fatturato mensile di 100 miliardi di lire. Ai Riva, che oggi la ricordano come un "disastro" e un "ferro vecchio", costa 1.649 miliardi. E - come ricostruito dal Fatto nei giorni scorsi - la società Riva Fire, che controlla l'Ilva, in pochi mesi passa da un utile (consolidato) di 157 miliardi di lire (anno 1994) ai 2.240 miliardi del 1995. Balzo verticale anche per l'utile netto, da 112 a 1.842 miliardi, niente male per un "disastroso ferro vecchio". Di certo, invece, c'è che l'Ilva inquinava parecchio già allora, tanto che gli stessi Riva chiesero, senza ottenerlo, uno sconto di 800 miliardi di lire. Che fosse così inquinante, Prodi, lo ricorda bene: “Parliamo di un secolo fa”, spiega il professore, “molto prima della legislazione provvidenzialmente intervenuta dopo... Ma le ripeto: era un bello stabilimento, tra l'altro isolato dalla città. È stata la città ad andare addosso all'Ilva, non l'Ilva addosso alla città. Quando andavamo allo stabilimento, si percorrevano chilometri e non c'era una casa. Se la gente non fosse stata messa ad abitare lì, così addosso all'acciaieria, forse non sarebbe stata così aggredita dall'inquinamento”. Il ricordo di Prodi è corretto solo in parte: il rione Tamburi già esisteva, ma effettivamente negli anni si è sviluppato sempre più a ridosso delle ciminiere. IL PUNTO È CHE I RIVA, secondo l'accusa, non hanno rispettato quella che, per dirla con le parole dell'ex premier, fu una “le - gislazione provvidenziale” de - stinata a salvare gli abitanti dall'inquinamento. Ed è proprio per questo che la procura di Taranto ha deciso di sequestrare al gruppo Riva ben 8,1 miliardi di euro. “Mi aggrediscono ingiustamente da ogni parte. È inaccettabile”, lamenta Riva al Corriere della Sera. “Non sarà il caso di tornare alla nazionalizzazione dell'Ilva?”, chiediamo a Prodi. “Sul presente, come le ho già detto, io non mi pronuncio. La saluto”. Clic.