Il problema principale rimane la questione dell'hot air, aria calda. Il termine si riferisce ad un surplus di certificati-emissioni, un sistema di carbon credit che di fatto si riferirebbe a obiettivi di riduzione emissioni già raggiunti. Ma per Russia, Ucraina e l'europea Polonia questi certificati "sono validi e possono essere impiegati"
Lo scenario è chiaro: alcuni paesi dell’ex Cortina di Ferro all’avvio del protocollo di Kyoto hanno ricevuto un numero generoso, troppo generoso, di certificati che dovevano servire per compensare le emissioni delle industrie pesanti e del settore dei combustibili fossili secondo i livelli del 1990. I firmatari di Kyoto infatti hanno degli obbiettivi di riduzione delle emissioni: ad esempio l’Europa dovrebbe ridurre del 20% rispetto al 1990 entro il 2020 (obiettivo per altro già praticamente raggiunto, grazie alle rinnovabili ed alla crisi economica). Questi crediti sarebbero serviti ai paesi dell’Est per come aiuto per raggiungere i propri obiettivi.
A favorire degli AAU Russia, Ucraina e Polonia, i quali tuttavia, successivamente alla crisi post 1989 e alla chiusura dell’industria pesante, con le emissioni sensibilmente diminuite si sono ritrovate con in mano un surplus di 13gigatonnelate di permessi per compensare emissioni di gas serra mai avvenute.
Quindi questi permessi sono di fatto “aria fritta”, poiché appunto si riferirebbero ad obiettivi di riduzione emissioni già raggiunti. Ma per Russia, Ucraina e l’europea Polonia questi certificati “sono validi e possono essere impiegati nel mercato delle emissioni”. Un problema gigantesco, meglio noto come “la falla del Protocollo di Kyoto”. “Se questi certificati verdi venissero commerciati o scambiati nel secondo periodo di impegni di Kyoto2 salterebbero il sistema del mercato emissioni”, spiega Mauro Albrizio, responsabile Politiche Europee di Legambiente.
A sorprendere è sopratutto la Polonia, che puntando i piedi, si allontana dall’Europa per usare “l’hot air” per far pesare la propria posizione nel negoziato, e – si sospetta nei corridoi del convention Center di Doha – per fare cosa gradita alla Russia. La soluzione per risolvere la questione esiste: si tratta della proposta sostenuta da Cina, India, Brasile e Sudafrica di consentire l’uso del surplus sino al 2020 solo per gli ‘usi domestici’ dei paesi interessati: in questo modo i certificati “tossici” non saranno immessi sul mercato. Ma per ora i 3 paesi rimangono convinti sulla richiesta di poter usare i loro carbon credit (il cui valore economico non è irrilevante).
Il ruolo negativo della Russia e della Polonia, sostengono numerosi delegati europei contattati dal Fatto Quotidiano, sta rallentando il negoziato. “Vedremo cosa vorranno i polacchi in cambio della loro concessione a buttare i certificati AAU”, dice un negoziatore che preferisce non usare il suo nome. “La Polonia si è offerta di ospitare il il negoziato del 2013 (a Varsavia, nda) il prossimo anno, dove entrerà nel vivo il negoziato sul nuovo trattato internazionale”, ha spiegato Samantha Smith, addetta politiche climatiche del Wwf durante una conferenza stampa. «I record ambientali sono pessimi. Se vuole essere una sede ospitante degna prossimo negoziato dovrà come minimo accettare di risolvere la questione hot air». Mentre per la rappresentante Wwf Italia a Doha, Mariagrazia Midulla ”se i paesi riuniti a Doha vogliono che questo summit raggiunga un risultato tangibile per il clima globale, devono eliminare la possibilità di trasferire questo surplus di AAU nel secondo periodo di Kyoto. Questa dovrebbe essere l’eredità di Doha, o verrà ricordata come una conferenza politicamente a base di aria calda o peggio di aria fritta” conclude Midulla.
Il capo della delegazione brasiliana André Corrêa do Lago si spinge ancora più in là. “Kyoto è importante per continuare il negoziato (anche se coinvolge solo il 15% degli stati per emissioni, nda). Per me è chiaro che se non ci sarà un accordo, molte cose potrebbero bloccarsi”. Minacce diplomatiche, certo, ma pur sempre pesanti.
Cosa succederà dunque alla seconda fase del protocollo di Kyoto? Molti sono fiduciosi che la Polonia tornerà a ragionare e che qualche stato potrebbe cambiare posizione, sopratutto il Giappone che fino a sabato si era detto poco possibilista. Servirà per aiutare il clima? Poco. Vista l’immobilità delle parti la delegazione Ue ha detto che gli impegni per il 2020 rimangono sull’obbiettivo del 20% di riduzione emissioni. Il problema che questo risultato è già stato praticamente raggiunto. L’Australia ha promesso di ridurre del 0,5% (cifra ridicola, secondo le associazioni ambientaliste), mentre il Canada, un tempo un grande supporter del protocollo, dopo la sbornia di petrolio non convenzionale il governo di destra ha detto a chiare parole: “me ne frego”. Ma per le Ong come Wwf e Legambiente bisogna andare avanti, anche se la differenza tra mondo reale e la realtà parallela di questo negoziato continua ad aumentare.
di Emanuele Bompan da Doha http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/12/03/doha-negoziati-sul-clima-si-bloccano-sul-protocollo-kyoto-2/434619/
Emissioni gas Serra, le pagelle a Doha.
L'Italia va, ma le strategie frenano i progressi
La classifica redatta da Germanwatch e presentata alla conferenza Onu in Qatar vede il nostro paese risalire la china (in 5 anni dal 48° posto al 21°) ma gli ambientalisti accusano: le scelte di sviluppo del governo rischiano di dare il colpo di grazia alla Green Econmy dal nostro inviato ANTONIO CIANCIULLO
DOHA - Nessun paese promosso. Nessun governo che abbia varato politiche energetiche capaci di garantire la sicurezza climatica. Per questo i primi tre posti della classifica redatta da Germanwatch, l'associazione che alla conferenza Onu di Doha ha dato le pagelle sulle emissioni serra, restano vuoti. Ma la top ten di chi comunque è sulla buona strada è dominata dall'Europa. E l'Italia, anche se non rientra nel drappello di testa, fa un notevole sprint che le permette di risalire alla 21° posizione (5 anni fa era al 48° posto).La classifica è basata sul Climate Change Performance Index che prende in considerazione quattro fattori: il livello delle emissioni, che pesa per il 30% dell'indice complessivo; il trend delle emissioni nei principali settori (elettrico, industria, costruzioni, trasporti, abitazioni), che pesa per il 30%; l'uso di energia rinnovabile, che pesa per il 10%; l'efficienza energetica, che pesa per il 10%; le politiche per il clima, che pesano per il 20%.
Con questi indicatori la Danimarca si piazza al primo posto, la Svezia al secondo e il Portogallo (che nella crisi non ha ceduto sulle politiche climatiche e ha investito sull'eolico) al terzo. Seguono Svizzera, Germania, Irlanda, Regno Unito, Malta, Ungheria.
Su 61 paesi presi in esame gli Stati Uniti si piazzano al 43° posto, in risalita (ma con il 4,5% della popolazione mondiale sono responsabili del 16,3% delle emissioni serra). La Cina al 54°, anche lei in risalita per il miglioramento nell'efficienza energetica (con il 19,7% della popolazione mondiale è responsabile del 21,4% delle emissioni serra) . Agli ultimi 4 posti troviamo il Canada (che ha putato sulle sabbie bituminose e sull'abbandono del protocollo di Kyoto), in caduta progressiva; il Kazakistan, l'Iran e l'Arabia saudita.
I progressi dell'Italia sono dovuti in parte alla recessione che ha fatto scendere le emissioni, ma soprattutto a due fattori: il ruolo importante giocato dalle rinnovabili e l'incremento dell'efficienza energetica grazie a strumenti come gli sgravi fiscali per le ristrutturazioni della casa in senso ambientale.
Ora però la strada per il nostro paese diventa in salita. "Purtroppo proprio quando sembrava che la partita potesse essere vinta è arrivata la Strategia energetica nazionale voluta dal ministero dello Sviluppo economico", commenta Mauro Albrizio, di Legambiente. "Questa strategia rischia di essere il colpo di grazia sul rilancio della green economy: invece di puntare decisamente sull'efficienza e sulla spinta finale verso la grid parity per le rinnovabili torna a premiare i combustibili fossili con l'obiettivo di nuove trivellazioni".
Rallentare la spinta verso l'innovazione rischierebbe di vanificare un percorso che ha permesso a tutti i paesi dell'Unione europea - inclusa l'Italia - di vedere un aumento del Pil, tra il 1990 e il 2001, del 48% a fronte di una diminuzione del 17,5% delle emissioni di anidride carbonica. Un dato su cui ha inciso la crisi economica, ma che rappresenta comunque un'indicazione per far ripartire il motore dell'economia innescando la marcia della competitività.
(03 dicembre 2012)
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