http://www.cdbitalia.it/2009/09/06/
di Andrea Palladino
da “il manifesto” del 30 agosto 2009 e 5 settembre 2009
da “il manifesto” del 30 agosto 2009 e 5 settembre 2009
Il volto sorridente di don Cesare Boschin è luccicante per chi si
avvicina alla porta della chiesetta dell’immacolata, a Borgo Montello,
in provincia di Latina. È nel centro di un bassorilievo in bronzo –
discreta fattura – posto sul lato destro dell’ingresso. La guancia è
quasi consumata, lisa e fa immaginare le mani che la sfiorano ogni
domenica mattina, quando le campane chiamano i tremila fedeli di questo
pezzo di terra quasi nascosto dell’area della bonifica pontina,
incuneato tra i comuni di Nettuno, di Cisterna e di Latina. Non è un
santo, non appare negli annali dei beati e già a pochi chilometri non lo
conosce nessuno. Di lui ricordano le sigarette e quei bicchieri molto
allegri di un buon veneto. Era padovano, e da queste parti arrivò quasi
cinquant’anni fa, per seguire i contadini del nord est, portati a forza
da Mussolini subito dopo la bonifica. Ma di don Cesare oggi a Borgo
Montello ricordano soprattutto la morte. Atroce e piena di misteri.
L’esecuzione
Il 30 marzo del 1995 la perpetua apre la stanza del vecchio prete. Don
Cesare aveva compiuto da poco ottantun’anni e tanto bene non stava. La
sua stanza era al primo piano della canonica, con la finestra verso la
chiesetta. Non lo aveva sentito alzarsi, la cucina era vuota. Il corpo
del vecchio parroco era già rigido. Le mani e i piedi bloccati dal
nastro adesivo e quella corda intorno al corpo che la donna aveva visto
solo in qualche film. Tecnicamente si chiama incaprettamento, le
spiegheranno poi i carabinieri. La piccola stanza era sottosopra.
L’armadio era stato rovistato, a lungo. «Cercavano i soldi», fu il
commento degli investigatori. «Un balordo», spiegarono nelle poche
dichiarazioni i magistrati, conducendo indagini un po’ pigre, per i
canonici sei mesi. Tutto archiviato, quando a Borgo Montello già si
pensava alla vendemmia. Nessuno – tra gli inquirenti – ha avuto voglia
di spiegare perché il «balordo» abbia lasciato 700 mila lire in tasca
all’anziano prete e quasi otto milioni di lire in una busta che era
nell’armadio messo sotto sopra. Soldi lasciati per occuparsi di due
agende, gli unici due oggetti che sparirono la notte della morte di don
Cesare Boschin.
Un dato certo, che nessuno poteva archiviare, era la paura che da allora è scesa su Borgo Montello. Quel prete un po’ capatosta aveva passato gli ultimi mesi della sua vita organizzando un gruppetto di contadini veneti, gente dura, con un dialetto che suona curioso a meno di cento chilometri da Roma, sulla strada che porta verso la Campania, la Terra di Lavoro. Si dava da fare per aiutare un comitato che aveva in testa la pretesa di denunciare l’avvelenamento delle loro terre.
Un dato certo, che nessuno poteva archiviare, era la paura che da allora è scesa su Borgo Montello. Quel prete un po’ capatosta aveva passato gli ultimi mesi della sua vita organizzando un gruppetto di contadini veneti, gente dura, con un dialetto che suona curioso a meno di cento chilometri da Roma, sulla strada che porta verso la Campania, la Terra di Lavoro. Si dava da fare per aiutare un comitato che aveva in testa la pretesa di denunciare l’avvelenamento delle loro terre.
La discarica dei veleni
A Borgo Montello fin dal 1974 funziona una discarica che serve l’intera
provincia di Latina. Trentacinque anni di monnezza che oggi formano una
collina artificiale. Per vederla dal Borgo basta salire nella canonica,
aprire la finestra della cucina di don Cesare: si vedono le ruspe, i tir
che entrano, e quando tira il vento si sente anche l’odore acre. Dai
primi anni ’90, però, quella che era una presenza in fin dei conti
tollerata comincia a preoccupare. «I cacciatori iniziarono a raccontarci
di alcuni camion che di notte scaricavano decine e decine di fusti di
metallo», racconta uno dei tanti amici di don Cesare. Testimonianza che
rimarrà anonima, come tutte quelle che oggi ricostruiscono la rotta dei
veleni su Borgo Montello.
I primi anni ’90 sono atroci a Latina. Una serie di omicidi – rimasti senza colpevole – hanno fatto piazza pulita dei delinquenti locali. Esecuzioni sul sagrato delle chiese, auto imbottite di tritolo, spari in faccia in pieno centro. E poi un vero e proprio attentato contro l’investigatore che stava mettendo le manette ai tangentisti locali.
A Borgo Montello l’aria era differente. Don Cesare era riuscito a mettere su un gruppo forte, convinto, che studiava le carte. Erano in prima fila davanti ai cancelli della discarica, bloccando i camion, facendo i nomi dei proprietari venuti dal nord. Denunciavano i carichi di resti delle concerie toscane, che dal fiume Astura – che ancora oggi è il confine labile tra le montagne di monnezza e la più vasta coltivazione di ortaggi della zona – scorrevano verso le loro terre, le coltivazioni messe su dai padri. E don Cesare Boschin annotava, dava consigli, usava la sua tonaca per denunciare. Fino al giorno della sua esecuzione, che ha ammutolito tremila persone.
I primi anni ’90 sono atroci a Latina. Una serie di omicidi – rimasti senza colpevole – hanno fatto piazza pulita dei delinquenti locali. Esecuzioni sul sagrato delle chiese, auto imbottite di tritolo, spari in faccia in pieno centro. E poi un vero e proprio attentato contro l’investigatore che stava mettendo le manette ai tangentisti locali.
A Borgo Montello l’aria era differente. Don Cesare era riuscito a mettere su un gruppo forte, convinto, che studiava le carte. Erano in prima fila davanti ai cancelli della discarica, bloccando i camion, facendo i nomi dei proprietari venuti dal nord. Denunciavano i carichi di resti delle concerie toscane, che dal fiume Astura – che ancora oggi è il confine labile tra le montagne di monnezza e la più vasta coltivazione di ortaggi della zona – scorrevano verso le loro terre, le coltivazioni messe su dai padri. E don Cesare Boschin annotava, dava consigli, usava la sua tonaca per denunciare. Fino al giorno della sua esecuzione, che ha ammutolito tremila persone.
Salve, sono Michele Coppola
«Un giorno si presenta un tipo napoletano – raccontano nel Borgo – che
disse semplicemente, salve mi chiamo Michele Coppola». Alla fine degli
anni ’80 nel Borgo, proprio a ridosso della discarica, erano arrivati
questi strani fattori. «La terra la lavoravano, sai?, si svegliavano la
mattina alle quattro, come noi, per fresare», continua il racconto. Ma,
anche oggi, quando passano nelle vie del borgo usano una Audi A8, «una
macchina come quella di Berlusconi», spiegano. «Sono loro che hanno il
vero controllo del territorio – spiegano nelle vie del borgo – perché
qui di Polizia e Carabinieri se ne vedono molto pochi». Ed anche i
ragazzi di Libera, che nei giorni scorsi stavano girando un video
documento su don Cesare Boschin, sono stati avvicinati da Michele.
Stavano filmano la discarica, quando si è fermato, a distanza, per
capire che succedeva. Il tempo di un’occhiata per poi allontanarsi.
La via dei soldi che porta a Latina
Chi è Michele Coppola, chi rappresenta e – soprattutto – di chi
sarebbero i soldi che gli avrebbero permesso di comprarsi decine di
ettari di terra attorno alla discarica lo ha raccontato Carmine
Schiavone, il principale collaboratore di giustizia del cartello dei
casalesi. Un anno esatto dopo la morte di don Cesare, Schiavone spiega
gli affari dei casalesi in terra pontina. «L’azienda agricola acquista a
Borgo Montello – spiega ai carabinieri – era intestata a mio cugino
Antonio Schiavone, persona incensurata alla quale mi rivolsi io per
intestarsi il bene che consideravo mio e di mio cugino Sandokan». Ma nel
borgo gli Schiavone – secondo il racconto di Carmine – mandarono
«Michele Coppola, da me e da Sandokan (ovvero Francesco Schiavone, ndr)
sistemato qui a Latina in quanto si era sposato e non aveva una casa. Lo
piazzammo lì e gli passavamo tre milioni al mese dalla cassa dei clan».
Michele Coppola – che nel 2005 venne assolto alla fine del processo
Spartacus – e la terra sono ancora lì, vent’anni dopo.
Quali erano gli interessi dei casalesi – e in modo particolare degli Schiavone – a Borgo Montello lo spiega sempre il cugino di Sandokan. «Mi diceva Salzillo Antonio, ai tempi in cui faceva ancora parte del nostro gruppo, che lui operava con la discarica ufficiale di Borgo Montello», racconta Schiavone. «In tale struttura faceva occultare bidoni di rifiuti tossico o nocivi per ognuno dei quali mi diceva che prendeva 500.000 lire». Ci sarebbero state varie conferme al racconto di Schiavone. Nel 1994 – ad esempio – il figlio dell’originario proprietario della discarica viene arrestato insieme a Gaetano Cerci – ovvero all’esperto dei rifiuti dei casalesi, collegato anche con la P2 – per un traffico illecito di rifiuti nel Lazio. Ma seguendo la pista dei bidoni e dei rifiuti tossico nocivi si può arrivare molto lontano.
Quali erano gli interessi dei casalesi – e in modo particolare degli Schiavone – a Borgo Montello lo spiega sempre il cugino di Sandokan. «Mi diceva Salzillo Antonio, ai tempi in cui faceva ancora parte del nostro gruppo, che lui operava con la discarica ufficiale di Borgo Montello», racconta Schiavone. «In tale struttura faceva occultare bidoni di rifiuti tossico o nocivi per ognuno dei quali mi diceva che prendeva 500.000 lire». Ci sarebbero state varie conferme al racconto di Schiavone. Nel 1994 – ad esempio – il figlio dell’originario proprietario della discarica viene arrestato insieme a Gaetano Cerci – ovvero all’esperto dei rifiuti dei casalesi, collegato anche con la P2 – per un traffico illecito di rifiuti nel Lazio. Ma seguendo la pista dei bidoni e dei rifiuti tossico nocivi si può arrivare molto lontano.
Basso Lazio, un delitto lungo le rotte dei veleni
Don Cesare Boschin – il prete che combatteva contro la discarica dei
veleni di Borgo Montello, a Latina – è stato dimenticato, sepolto senza
trovare un colpevole per la sua morte. Hanno provato – come con don
Diana, a Casal di Principe – a buttare un po’ di fango, tirando fuori
storie di omosessualità archiviate trent’anni fa. Le dichiarazioni del
collaboratore della camorra Carmine Schiavone sulla presunta presenza
dei casalesi vicino alla discarica e dei loro interessi nel controllo
del traffico di rifiuti pericolosi sono rimaste lette
ra morta. Nessun riscontro, si dice in giro. E Michele Coppola, che veniva indicato da Schiavone come il referente a Borgo Montello, è uscito assolto dall’unico processo che lo ha riguardato – Spartacus – e tutte le terre e i beni attorno alla discarica che nel 1997 erano stati sequestrati sono ritornati alla sua famiglia. Tutte bugie di un pentito, dunque?
ra morta. Nessun riscontro, si dice in giro. E Michele Coppola, che veniva indicato da Schiavone come il referente a Borgo Montello, è uscito assolto dall’unico processo che lo ha riguardato – Spartacus – e tutte le terre e i beni attorno alla discarica che nel 1997 erano stati sequestrati sono ritornati alla sua famiglia. Tutte bugie di un pentito, dunque?
Il rapporto sparito
Per ricostruire la via dei rifiuti che terminano nell’enorme invaso di
Borgo Montello occorre partire da alcuni dati certi, storici ed
inoppugnabili. Il primo dato è quello più grave e allarmante. Le falde
acquifere di Borgo Montello – almeno nella zona della discarica – sono
ormai inquinate. Nessuno ha mai detto nulla alla popolazione, anche se
la notizia viene da fonte certa: «Le indagini condotte confermano lo
stato e le caratteristiche dell’inquinamento della falda soggiacente il
sito», si legge su una nota dell’Arpa Lazio (la numero 91456 del 19
maggio 2009). Vent’anni di rifiuti hanno intaccato, dunque, le acqua
sotterranee.
Per tanto tempo a Borgo Montello gli abitanti hanno cercato di capire cosa finiva dentro la discarica. Di risposte, fino ad ora, ne hanno avute molte poche.
Nel 1996 l’Enea ha eseguito una complessa analisi per capire se sotto le montagne di monnezza vi fossero corpi metallici, primo sintomo della eventuale presenza dei fusti di rifiuti pericolosi. L’esito fu positivo: «Sono state individuate tre anomalie magnetiche che potrebbero corrispondere a tre ammassi metallici di larghezza pari a 10×20 metri i primi due e 50×50 metri il terzo». Ovvero un’area pari a mezzo campo di calcio, solo nell’invaso analizzato dall’Enea. Ma proprio a fianco c’è il sito B2, che per anni è stato utilizzato per stoccare rifiuti industriali. Su questa parte della discarica le informazioni sono pressoché inesistenti.
Il rapporto dell’Enea è sparito per dieci anni. Nessuno sapeva più dove era andato a finire, o, probabilmente, nessuno lo aveva cercato. Lo scorso anno il consigliere regionale Fabrizio Cirilli – eletto nelle liste di An e oggi promotore dell’alleanza tra parti del Pdl e l’Udc – lo ritrova, senza, però, spiegare come e dove. E’ la Regione Lazio, a questo punto, che decide di avviare i carotaggi e le analisi dei terreni, per capire – dopo vent’anni dalle prime denunce – quali rifiuti siano stati buttati negli invasi.
Sono due le aziende che controllano i sei invasi. C’è la Ecoambiente, della società pubblico-privata Latina Ambiente, controllata per il 51% dal comune di Latina e il 49% dalla Unendo dei fratelli Colucci. Grandi sponsor del Pdl, le loro società (Emas ambiente prima, Waste Italia poi) hanno generosamente finanziato – legalmente e alla luce del sole – Alleanza nazionale e Forza Italia nel 2001, l’anno delle elezioni regionali che videro vincente Storace (100 milioni di lire il 13 luglio 2001 ad An, 150 milioni di lire tra maggio e novembre a Fi, soldi usciti dalle casse di da Emas ambiente, come risulta nei tabulati della Camera dei deputati).
C’è poi la Ind.Eco., società che nei primi anni ’90 era controllata dal gruppo Acqua dei fratelli Pisante, grandi esperti di rifiuti, depurazione e gestioni ambientali. Oggi la Ind.Eco. è controllata completamente dalla Green Holding, il colosso specializzato in bonifiche e rifiuti pericolosi di Giuseppe Grossi. L’imprenditore lombardo è da qualche mese sotto inchiesta: la Procura di Milano lo accusa di aver accantonato 22 milioni di euro di fondi neri ricavandoli da fatture gonfiate relative al trasporto di rifiuti della bonifica di Santa Giulia verso Germania.
Ed è proprio l’Ind.Eco. che sta proponendo dal 2006 la realizzazione di un inceneritore a Borgo Montello, con l’appoggio entusiasta del Pdl di Latina, soprattutto di Cusani e Fazzone. Convinta che qualcuno prima o poi accoglierà il progetto, la Ind.Eco. ha già presentato nei primi giorni del 2008 la richiesta per un impianto di bioessicazione che, secondo alcune fonti, sarebbe finalizzato ad un futuro inceneritore.
Per tanto tempo a Borgo Montello gli abitanti hanno cercato di capire cosa finiva dentro la discarica. Di risposte, fino ad ora, ne hanno avute molte poche.
Nel 1996 l’Enea ha eseguito una complessa analisi per capire se sotto le montagne di monnezza vi fossero corpi metallici, primo sintomo della eventuale presenza dei fusti di rifiuti pericolosi. L’esito fu positivo: «Sono state individuate tre anomalie magnetiche che potrebbero corrispondere a tre ammassi metallici di larghezza pari a 10×20 metri i primi due e 50×50 metri il terzo». Ovvero un’area pari a mezzo campo di calcio, solo nell’invaso analizzato dall’Enea. Ma proprio a fianco c’è il sito B2, che per anni è stato utilizzato per stoccare rifiuti industriali. Su questa parte della discarica le informazioni sono pressoché inesistenti.
Il rapporto dell’Enea è sparito per dieci anni. Nessuno sapeva più dove era andato a finire, o, probabilmente, nessuno lo aveva cercato. Lo scorso anno il consigliere regionale Fabrizio Cirilli – eletto nelle liste di An e oggi promotore dell’alleanza tra parti del Pdl e l’Udc – lo ritrova, senza, però, spiegare come e dove. E’ la Regione Lazio, a questo punto, che decide di avviare i carotaggi e le analisi dei terreni, per capire – dopo vent’anni dalle prime denunce – quali rifiuti siano stati buttati negli invasi.
Sono due le aziende che controllano i sei invasi. C’è la Ecoambiente, della società pubblico-privata Latina Ambiente, controllata per il 51% dal comune di Latina e il 49% dalla Unendo dei fratelli Colucci. Grandi sponsor del Pdl, le loro società (Emas ambiente prima, Waste Italia poi) hanno generosamente finanziato – legalmente e alla luce del sole – Alleanza nazionale e Forza Italia nel 2001, l’anno delle elezioni regionali che videro vincente Storace (100 milioni di lire il 13 luglio 2001 ad An, 150 milioni di lire tra maggio e novembre a Fi, soldi usciti dalle casse di da Emas ambiente, come risulta nei tabulati della Camera dei deputati).
C’è poi la Ind.Eco., società che nei primi anni ’90 era controllata dal gruppo Acqua dei fratelli Pisante, grandi esperti di rifiuti, depurazione e gestioni ambientali. Oggi la Ind.Eco. è controllata completamente dalla Green Holding, il colosso specializzato in bonifiche e rifiuti pericolosi di Giuseppe Grossi. L’imprenditore lombardo è da qualche mese sotto inchiesta: la Procura di Milano lo accusa di aver accantonato 22 milioni di euro di fondi neri ricavandoli da fatture gonfiate relative al trasporto di rifiuti della bonifica di Santa Giulia verso Germania.
Ed è proprio l’Ind.Eco. che sta proponendo dal 2006 la realizzazione di un inceneritore a Borgo Montello, con l’appoggio entusiasta del Pdl di Latina, soprattutto di Cusani e Fazzone. Convinta che qualcuno prima o poi accoglierà il progetto, la Ind.Eco. ha già presentato nei primi giorni del 2008 la richiesta per un impianto di bioessicazione che, secondo alcune fonti, sarebbe finalizzato ad un futuro inceneritore.
La rotta dei veleni
Legambiente di Latina ha denunciato diversi anni fa un’ipotesi
inquietante sull’origine dei veleni di Borgo Montello. Oltre ai per ora
presunti traffici dei casalesi di cui parlava Carmine Schiavone, nella
discarica sarebbero finiti una parte dei fusti trasportati dalle navi
dei veleni, la Zanoobia e la Karen-B. Voci che vengono confermate dagli
amici di don Cesare a Borgo Montello, che ricordano i camion diretti
alla discarica nei anni ’90: «Gli autisti ci raccontavano che
provenivano dall’Emilia Romagna», spiegano. Ovvero la regione dove
finirono stoccati buona parte dei rifiuti delle navi dei veleni.
Ricostruire la complessa e nebulosa vicenda della Zanoobia, della Karen-B e, per ultima, della Jolly Rosso oggi non è facile. Il funzionario di polizia di Latina che all’epoca seguì la vicenda – raccogliendo alcune testimonianze – è nel frattempo deceduto. L’inchiesta, a quanto sembra, si era fermata davanti ai tanti non so dei dipendenti della discarica e dalle emeroteche non emergono altri dettagli. Nessuno, d’altra parte, ha mai smentito in questi anni l’ipotesi fatta da Legambiente.
L’unico dato certo – almeno per ora – che collega la discarica di Borgo Montello con una delle navi è la società Ind.Eco. Per un certo numero di anni – e sicuramente nei primi anni ’90, come è possibile leggere in alcuni documenti dell’antitrust – l’impresa che gestisce parte della discarica è stata una delle controllate del gruppo Servizi Industriali. Quest’ultima società, a sua volta, era stata incaricata dello smaltimento di una parte dei fusti della Zanobia, dopo le prime operazioni di messa in sicurezza effettuate dalla Castalia, società del gruppo Iri.
Dei rifiuti delle navi dei veleni, in realtà, si è persa traccia. L’ultima notizia è del 1993, quando l’allora presidente del consiglio Ciampi stanziava 19 miliardi di lire per la sistemazione definitiva. Soldi che si aggiunsero ai quasi 250 miliardi spesi fino ad allora per la gestione dei fusti tossici. Anche la protezione civile ammette di avere difficoltà nel ritrovare le tracce dei bidoni spariti. Dagli archivi escono solo le ordinanze poi pubblicate sulla gazzetta ufficiale, spiegano, che fermano le lancette dell’orologio al 1993, quando il governo Ciampi stanziò 19 miliardi per sistemare definitivamente la vicenda delle navi dei veleni. Ma le destinazione finale rimane un mistero.
«L’unica soluzione sarebbe di scavare, di effettuare i carotaggi», spiegano i vertici dell’Arpa Lazio. I veleni e e le vie dei rifiuti sono spesso i segreti meglio custoditi.
Ricostruire la complessa e nebulosa vicenda della Zanoobia, della Karen-B e, per ultima, della Jolly Rosso oggi non è facile. Il funzionario di polizia di Latina che all’epoca seguì la vicenda – raccogliendo alcune testimonianze – è nel frattempo deceduto. L’inchiesta, a quanto sembra, si era fermata davanti ai tanti non so dei dipendenti della discarica e dalle emeroteche non emergono altri dettagli. Nessuno, d’altra parte, ha mai smentito in questi anni l’ipotesi fatta da Legambiente.
L’unico dato certo – almeno per ora – che collega la discarica di Borgo Montello con una delle navi è la società Ind.Eco. Per un certo numero di anni – e sicuramente nei primi anni ’90, come è possibile leggere in alcuni documenti dell’antitrust – l’impresa che gestisce parte della discarica è stata una delle controllate del gruppo Servizi Industriali. Quest’ultima società, a sua volta, era stata incaricata dello smaltimento di una parte dei fusti della Zanobia, dopo le prime operazioni di messa in sicurezza effettuate dalla Castalia, società del gruppo Iri.
Dei rifiuti delle navi dei veleni, in realtà, si è persa traccia. L’ultima notizia è del 1993, quando l’allora presidente del consiglio Ciampi stanziava 19 miliardi di lire per la sistemazione definitiva. Soldi che si aggiunsero ai quasi 250 miliardi spesi fino ad allora per la gestione dei fusti tossici. Anche la protezione civile ammette di avere difficoltà nel ritrovare le tracce dei bidoni spariti. Dagli archivi escono solo le ordinanze poi pubblicate sulla gazzetta ufficiale, spiegano, che fermano le lancette dell’orologio al 1993, quando il governo Ciampi stanziò 19 miliardi per sistemare definitivamente la vicenda delle navi dei veleni. Ma le destinazione finale rimane un mistero.
«L’unica soluzione sarebbe di scavare, di effettuare i carotaggi», spiegano i vertici dell’Arpa Lazio. I veleni e e le vie dei rifiuti sono spesso i segreti meglio custoditi.
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