giovedì 29 novembre 2012

Doha, dopo una settimana di dibattiti il summit sul clima non decolla

La prima settimana di negoziati della 18^ sessione della Conferenza ONU (COP18) sul cambiamento climatico, comunemente nota come COP18 verso la fine. Fino al 7 dicembre 193 nazioni discuteranno per trovare un accordo per un trattato internazionale sul cambiamento del clima entro il 2015. "Ma il negoziato procede lentamente" denunciano le Ong

A Doha, Qatar, si avvia verso la fine la prima settimana di negoziati della 18^ sessione della Conferenza ONU (COP18) sul cambiamento climatico, comunemente nota come COP18. Fino al 7 dicembre 193 nazioni discuteranno per trovare un accordo per un trattato internazionale sul cambiamento del clima entro il 2015. La prima settimana vede chiudersi i tavoli tecnici preliminari dove i paesi presentano le rispettive posizioni. «Il negoziato procede lentamente denuncia Mohamed Adow, di Christian Aid, unendosi al coro di Ong del gruppo Climate Action Network (CAN) un network globale di oltre 700 NGOs associazioni che promuovano azioni locali e governative contro il cambiamento climatico ed a favore dello sviluppo sostenibile.
La posta in gioco è alta. Per la Banca Mondiale  «l’inazione comporterà un aumento di 4°C della temperatura media della Terra entro il 2060. Questo sarà un cataclisma per i paesi poveri e per la crescita economica». Il futuro, sostengono i climatologi potrebbe riservare ondate di calore estremo, siccità, flessioni nelle scorte alimentari e un aumento del livello del mare che metterà a rischio la vita di milioni di persone. «Dobbiamo procedere sempre più velocemente nei negoziati», spiega Veronica Caciagli, di Italian Climate Network.
Per queste ragioni i negoziati sul clima di Doha rimangono fondamentali per mitigare gli effetti del cambiamento climatico di origine antropica. La COP18 potrebbe segnare uno spartiacque decisivo nella complicata ed ingombrante struttura negoziale delle Nazioni Unite, nata nel 1992 con il Summit della Terra di Rio.
Da un lato gli stati membri dovranno redigere un documento ispirato alla Durban Platform, la piattaforma concordata lo scorso anno alla Cop17 in Sud Africa. Questo testo sarà l’impalcatura per il vero trattato internazionale legalmente vincolante sul clima che dovrà fissare un tetto alle emissioni di gas serra e indicare delle strategie di mitigazione ed adattamento ai cambi climatici. Entro il 2015 dovrebbe essere firmato da tutti gli stati membri per essere implementato entro il 2020. Per Mariagrazia Midulla, esperta di Clima del WWF Italia, «impostare la roadmap del negoziato è decisivo. Più velocemente possiamo agire, prima riusciremo a contrastare i cambiamenti del clima».
Parallelamente allo sviluppo della Piattaforma Durban, il grosso del lavoro negoziale interesserà due tavoli nati nel 2005, rispettivamente quello del Protocollo di Kyoto e quello della Convenzione sulla Cooperazione di Lungo Termine, LCA in gergo ONU. Entrambi si sarebbero dovuti concludere nel 2009 a Copenhagen.
Gli occhi della stampa europea sono puntati sopratutto sul Protocollo di Kyoto: il primo periodo di impegni scade a fine dicembre. Gli stati firmatari dovranno decidere se siglare una secondo tranche.
In questo caso i firmatari dovranno continuare a contenere le emissioni di gas serra e promuovere il mercato delle emissioni. L’Europa ha dato il suo assenso per Kyoto 2 e potrebbe essere disposta ad eliminare le emissioni di Co2 dal 20% al 30%. Contrari: Russia, Nuova Zelanda e Canada, secondo cui Kyoto danneggerebbe l’industria dei combustibili fossili. Washington ancora una volta si chiamerà fuori.
Diverso il lavoro sulla Convenzione a Lungo Termine (LCA): al centro dello scontro rimangono i finanziamenti per un’economia low-carbon. I paesi in via di sviluppo (PVS) sono favorevoli a meccanismi che vedano le grandi potenze industriali investire nei propri paesi e al trasferimento tecnologico e di know-how. Gli Usa metteranno a disposizione 10 miliardi nel Green Fund (il fondo verde che dovrebbe movimentare oltre 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020) a patto che non ci siano concessioni su allentamento dei brevetti di tecnologie green. L’Europa rimane nella bufera: dovrebbe aumentare i fondi stanziati, ma con la crisi limiterà le promesse, creando amplia insoddisfazione tra i PVS.
Le proposte per movimentare questo Green Fund sono potenzialmente numerose: si va dalla carbon tax, passando per i proventi dei mercati della Co2 ai green bond, fino alla tassa sulle transazioni finanziarie per supportare la green economy. Quest’anno verrà fatta pressione per riconvertire i sussidi ai combustibili fossili in finanziamenti a progetti low carbon. Una posizione che incontra il favore di Obama, ma vista con ostilità da India, Cina e Arabia Saudita.
Per molti scienziati tuttavia il percorso negoziale diviene sempre più lungo e insoddisfacente. «Non vedo come possano arrivare ad una soluzione, sostiene in un’intervista al Fatto Quotidiano Lester Brown, autore del bestseller sullo sviluppo sostenibile Piano B. «L’accordo andrebbe fatto subito. Non quando i ghiacciai saranno scomparsi». Per Midulla «i processi di cambiamento climatico hanno subito un’accelerazione. Il tempo, quasi scaduto, il punto di non ritorno è vicino». A Doha le associazioni faranno il possibile per fare pressione sui 193 governi rappresentati. Assisteremo una svolta, o all’ennesimo fallimento?
di Emanuele Bompan
@emanuelebompan http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/11/29/doha-dopo-settimana-di-dibattiti-summit-sul-clima-non-decolla/431096/

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