lunedì 18 giugno 2012

clima il vertice mondiale di Rio de Janeiro Rio+20

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/06/18/vertice-clima-a-rio-ventanni-dopo-le-emissioni-sono-aumentate/266755/. Vertice clima a Rio, vent’anni dopo le emissioni sono aumentate Lo annuncia un gruppo di scienziati che ha pubblicato una ricerca sulla rivista scientifica Nature. In sostanza, a cinque lustri, dal primo vertice brasiliano poco è stato fatto con lo sviluppo continua a non essere sostenibile. di Davide Patitucci | 18 giugno 2012 Promesse non mantenute. Generici obiettivi, spesso non vincolanti per i paesi firmatari. Retoriche dichiarazioni d’intenti, seguite da risultati marginali. E una mole di trattati e accordi negoziali, spesso rimasti solo sulla carta. Nei giorni del summit Onu sulla Terra “Rio + 20” - esattamente vent’anni dopo la prima conferenza di Rio in cui nacquero le convenzioni sui cambiamenti climatici, sulla diversità biologica e contro la desertificazione – gli scienziati tracciano su Nature un bilancio di ciò che è stato fatto e, soprattutto, di quanto ancora rimane da fare per preservare il pianeta. “I tre trattati hanno fallito nel raggiungere anche solo una frazione delle solenni promesse tanto strombazzate dai leader mondiali”, si legge nell’editoriale della rivista britannica, che pure aveva salutato con entusiasmo il primo summit brasiliano, descrivendolo come una svolta storica per la Terra. “I governi hanno sfoggiato retoriche dichiarazioni d’impegno in politiche ambientaliste, ma in questi venti anni di lavoro, a parte l’impressionante macchina burocratica messa a punto nel tempo, c’è poco da mostrare. Mentre i paesi perfezionavano l’arte del negoziato – affermano gli studiosi – la pressione sul pianeta aumentava sempre più, così come l’emissione di gas serra e la minaccia alla sopravvivenza di molte specie”. Lo sviluppo continua a non essere sostenibile. L’obiettivo di fronteggiare i mutamenti climatici appare scoraggiante, proprio come due decadi fa. Il distacco tra scienza e politica sembra aumentare. E rimane ancora irrisolta la questione di chi tra paesi poveri e ricchi, storicamente responsabili delle emissioni di gas serra, dovrà sobbarcarsi i costi maggiori degli interventi per proteggere il pianeta. “Le conseguenze dell’inazione sono deleterie – ammoniscono gli scienziati -. Ogni giorno che passa i problemi diventano sempre più difficili e costosi da risolvere e il numero di opzioni disponibili decresce”. Ne è un esempio il sostanziale stallo sul nuovo accordo in sostituzione del protocollo di Kyoto, in scadenza quest’anno. Nel 1990 le emissioni ammontavano a 22,7 miliardi di tonnellate. Nel 2010 questo valore è salito a 33 miliardi, un incremento del 45 per cento. Ma quel che è peggio, negli ultimi anni il trend non si è affatto invertito. Anzi, il 2010 ha fatto registrare un’accelerazione record, con un incremento del 5 per cento rispetto ai dodici mesi precedenti. Nell’anno della prima conferenza di Rio i livelli di CO2 nell’atmosfera erano poco meno di 360 parti per milione. Oggi sfiorano il valore di 400. A trainare questo balzo in alto sono ancora gli Usa, con un 11 per cento in più tra il 1990 e il 2010, e le economie emergenti, la Cina su tutte, che nello stesso periodo hanno aumentato la loro quota dal 29 al 54 per cento. I paesi ricchi, in realtà, sono sulla buona strada per arrivare a una riduzione, pari al 7 per cento. Ma non perché stiano attuando pratiche virtuose di contenimento, bensì a causa degli effetti della crisi economica e dello smantellamento di fabbriche inefficienti in seguito al crollo dell’Unione sovietica. Dalle pagine di Nature un team di studiosi, dopo aver analizzato oltre mille ricerche scientifiche, lancia un appello sulla salute del pianeta e il rischio della perdita di biodiversità per la specie umana. “Così come le dichiarazioni di consenso dei medici hanno portato alla diffusione di messaggi pubblici sui rischi del fumo – afferma Bradley Cardinale della University of Michigan, a capo del team – il nostro intento è affermare che la perdita delle specie è dannosa per gli ecosistemi e può nuocere alla società, ricadendo su quelle attività che sono essenziali per la salute umana, come l’agricoltura o la pesca”. Secondo le stime dell’International union for con­servation of nature, il 30 per cento degli anfibi, il 21 per cento degli uccelli e il 25 per cento dei mammiferi è a rischio estinzione. La rivista inglese pubblica uno studio su 25.000 specie in pericolo, coordinato dall’australiano Barney Foran, della Charles Sturt University e dell’University of Sydney, che mostra un collegamento fra i consumi nei paesi più avanzati e le specie minacciate in quelli in via di sviluppo. La ricerca rivela che il 30 per cento delle cause che mettono a repentaglio la sopravvivenza di alcune specie è dovuto proprio al commercio internazionale. “Nessuno può dire con esattezza cosa accada nel momento in cui un ecosistema perde una specie – scrive in uno degli studi pubblicati su Nature Shahid Naeem, della Columbia University -, ma molti di noi sono d’accordo nel riconoscere che se gli ecosistemi perderanno la maggior parte delle loro specie sarà un disastro. Venti anni e migliaia di studi dopo, ciò che il mondo pensava fosse vero a Rio, nel 1992, è stato alla fine dimostrato: la biodiversità è alla base della nostra capacità di realizzare uno sviluppo sostenibile”. Gli fa eco Diane Srivastava, della University of British Columbia: “Abbiamo raggiunto un punto in cui gli sforzi per preservare le specie e la diversità biologica potrebbero non essere più un atto di altruismo”. Per tutte queste ragioni l’auspicio degli studiosi, attraverso le pagine di Nature, è che il nuovo summit “Rio + 20” non sia una semplice piattaforma per nuovi trattati. “Il mondo ne è già pieno e non servirebbero a nulla. Rio deve, invece, rappresentare un’occasione per prendere coscienza delle condizioni attuali del pianeta e riconoscere onestamente dove le politiche ambientaliste hanno fallito in tutti questi anni di sterili annunci”. Rio De Janeiro, il summit sulla sostenibilità si preannuncia un flop Al vertice Onu Rio+20 alcuni 'grandi della terra', tra cui Obama, Merkel e Cameron, non ci saranno. Le associazioni ambientaliste a Monti chiedono una "visione che tenga insieme la crisi, il rischio di cambiamenti ambientali irreversibili e la riduzione delle disuguaglianze" di Alessio Pisanò | 18 giugno 2012 http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/06/18/rio-de-janeiro-il-summit-sulla-sostenibilita-si-preannuncia-un-flop/266705/ Non ci va nemmeno Obama, e abbiamo detto tutto. Il summit sullo sviluppo sostenibile che si terrà dal 20 al 22 giugno a Rio de Janeiro, in Brasile, si preannuncia un flop già dalle premesse. I presupposti ci sono tutti: un documento di massima sul quale non c’è nessun accordo e si bisticcia sulle virgole, una crisi economica e finanziaria dall’altra parte del globo e l’assenza di big del calibro di Angela Merkel, David Cameron e appunto Barack Obama. Aggiungiamoci gli Europei di calcio in Polonia e Ucraina e il quadro è perfetto. In teoria il summit Onu Rio+20, interamente dedicato allo sviluppo sostenibile, dovrebbe costituire una pietra miliare del mondo che verrà. Le due versioni precedenti si sono tenute più di vent’anni fa (Stoccolma 1972 e ancora Rio de Janeiro 1992). Sul tavolo tutti i capitoli di come salvare il mondo mantenendo costante lo sviluppo dell’economia: riscaldamento climatico, green economy, biodiversità e tanto altro. Insomma, un appuntamento da non mancare. Lo mancheranno eccome, invece, la tedesca Angela Merkel e l’inglese David Cameron, impegnati con la tempesta perfetta dell’euro e già con la testa al summit europeo del 28 giugno di Bruxelles, vertice che potrebbe, se non segnare l’implosione dell’Unione europea, almeno comportare la perdita di qualche pezzo, alias la Grecia. Ai grandi assenti si è aggiunto anche il presidente della Casa Bianca, impegnato notte e giorno in una campagna elettorale che stenta a decollare e con previsioni dal retrogusto piuttosto amaro per i democratici. A nulla sono valsi gli inviti, ufficiali e privati, del segretario generale Onu Ban Ki-moon, che ha praticamente pregato Obama di illuminare quello che si annuncia un fosco summit con la sua stella politica. Ma il rischio di fiasco per Rio+20 non dovuto tutto all’assenza dei vip. I negoziati che già fervono a Rio tra i rappresentati delle delegazioni internazionali non lasciano presagire niente di buono. Secondo la Ong internazionale Third World Network il disaccordo è totale, perfino sui termini da usare. Alla perenne diatriba tra Paesi ricchi (Usa, Canada, Giappone e Ue) e in via di sviluppo (Cina e India) sull’ammontare dei finanziamenti e i limiti agli incentivi alle fonti di energia fossile, si aggiungono patetici bisticci sull’ordine delle frasi e sul significato delle parole da scrivere nel documento. L’associazione riferisce di un comma del testo dove i Paesi del G77 (l’organizzazione dei 131 Paesi in via di sviluppo rappresentati da Pakistan e Cina) chiedevano che venisse mantenuto il titolo ”Inquadrare nel contesto della green economy, le sfide e le opportunità derivanti dall’introduzione dei principi dello sviluppo sostenibile e dell’eliminazione della povertà”, richiesta respinta con forza da Stati Uniti, Svizzera, Unione Europea e Corea. O ancora diverse vedute addirittura sulle sfumature di concetti come “green economy” e “sviluppo”. Il risultato è che il testo sul quale 180 governi dovranno discutere nei prossimi giorni è stato concordato solo al 20 per cento e le questioni fondamentali su cui i vertici governativi sono chiamati ad esprimersi sono “ancora irrisolte”, secondo quando riferisce Sha Zukang, il diplomatico cinese capo dipartimento Onu per gli Affari economici e sociali che presiederà il vertice. Insomma, come dice il direttore WWF, Jim Leape, “il rischio del fallimento dei colloqui è serio. I capi di Stato, che hanno un’occasione davvero unica per impostare un discorso sullo sviluppo sostenibile, devono impegnarsi più incisivamente”. In caso contrario, prosegue, “ci troveremo di fronte a due possibili scenari: un accordo debole, che non serve a nessuno, o ad un fallimento totale”. D’altronde gli “accordi che non servono a niente” ai summit internazionali non sono certo una novità. L’ultimo “fiasco”, per citare gli ambientalisti, è stata la conferenza sul clima a Durban in Sudafrica lo scorso dicembre, dove i leader mondiali hanno partorito un nuovo trattato globale per la riduzione delle emissioni di Co2 e un Fondo verde per i Paesi più poveri solo a partire dal 2020, e nel quale Canada, Russia e Giappone si sono sfilati con nonchalance da Kyoto 2 (in aggiunta ai mai pervenuti Usa, Cina e India). E poi il fiaschetto di Copenaghen del dicembre 2009, dove mentre Obama e il premier cinese Wen Jiabao, il premier indiano Manmohan Singh, il presidente del Brasile Inàcio Lula da Silva e il presidente sudafricano Jacob Zuma, annunciavano uno “storico accordo sul clima” (storico ovviamente secondo loro), i leader europei erano ancora chiusi in una stanza a bisticciare per trovare una posizione comune europea, che alla fine non ci sarà. E intanto Legambiente, Kyoto club, Greenpeace, Fondazione symbola, Fondazione sviluppo ostenibile, Wwf scrivono una lettera a Monti per chiedere “una visione organica che tenga insieme la crisi economica, il rischio di cambiamenti ambientali irreversibili e la riduzione delle disuguaglianze tra fasce sociali e tra aree geografiche”. Insomma, non resta che sperare che dopo essersi fatto ascoltare a Bruxelles, Monti replichi anche oltreoceano.

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