lunedì 8 aprile 2013
Monti il decreto salvatrivelle regalo ai petrolieri
Monti, il decreto
salva- trivelle
spalanca le porte
ai petrolieri
LE MISURE
CONTRO LA CRISI
CONTENGONO
UN REGALO
ALLE COMPAGNIE.
IL GREGGIO
ITALIANO È DI
SCARSA QUALITÀ,
MA LO STATO
CHIEDE DIRITTI
BASSISSIMI
Il fatto quotidiano 8 aprile 2013
di Michele Concina
Cresci, Italia. E scava più
che puoi. Il decreto varato
dal governo Monti
nel giugno scorso, intitolato
dagli spin doctors alla
crescita per bilanciare l’impatto
depressivo del precedente Salva
Italia, per le compagnie petrolifere
è stato un semaforo verde.
Una riapertura della corsa al petrolio
e al gas, soprattutto in
mare. “É vero che il decreto
conferma una fascia protetta di
12 miglia dalle coste e dalle riserve
marine, ma allo stesso
tempo sblocca tutte le pratiche
di autorizzazione congelate due
anni prima”, spiega Giorgio
Zampetti, geologo, responsabile
scientifico di Legambiente.
“Di fatto, un condono delle trivelle,
che nel giro di qualche anno
potrebbe affiancare 70 nuove
piattaforme petrolifere, distribuite
lungo tutto l’Adriatico
e il Canale di Sicilia, alle 9 già in
funzione nelle nostre acque”.
É di cattiva qualità, il petrolio
italiano. É pesante, molto viscoso,
povero d’idrocarburi pregiati,
carico d’impurità, difficile
da pompare e da raffinare. Eppure,
è ambitissimo: si contano,
al 31 marzo, 22 permessi di ricerca
attivi, 36 istanze di nuovi
permessi, 11 istanze di “coltiva -
zione” di pozzi in mare. Il motivo?
Il greggio tricolore costa
davvero poco. In tutto il mondo,
gli Stati chiedono alle compagnie
una grossa fetta dei loro
lauti guadagni, sotto forma di
royalties, per compensare i gravi
danni che l’attività estrattiva
infligge all’ambiente. “In Norvegia,
per esempio, le royalties
ammontano al 78 per cento, in
Russia all’80, in Danimarca arrivano
al 70, in Gran Bretagna
vanno dal 32 al 50 per cento, negli
Stati Uniti partono dal 30, in
Australia sono al 40 per cento,
in Canada al 45”, elenca Pietro
Dommarco, autore di Trivelle
d’Italia.
DA NOI, le compagnie se la cavano
con il 7 per cento sul petrolio
estratto in mare, il 10 in
terraferma, il 10 sul gas dovunque
sia. Lamentano, naturalmente,
che la tassazione sulle
imprese è così alta che alla fine
pagano più del 60 per cento, ma
solitamente dimenticano di
menzionare le generose franchigie
di cui godono: basta dire
che i primi 300 mila barili prodotti
ogni anno da ciascun giacimento
sono esenti da royal
ties. Tanto che su 59 gruppi petroliferi
operanti in Italia, nel
2011 solo 9 le hanno versate.
Quanto ai canoni di concessione
sulle aree, a pagarli è sufficiente
il portamonete: si va da
due euro e 60 al chilometro quadrato
per le prospezioni a cinque
euro per le ricerche, fino a
poco più di 40 euro per l’estra -
zione. Naturale che due operatori,
la Cygam Energy e la Northern
Petroleum, nei rapporti ai
loro azionisti si siano sperticati a
magnificare l’assetto fiscale del
settore in Italia. In tutto, le royalties
versate nel 2011 (quando
le aliquote erano ancora più basse)
ammontano a meno di 262
milioni. Il grosso, quasi due terzi,
va alle regioni in cui si trovano
i giacimenti. Lo Stato si tiene
un 25 per cento, il resto va ai
comuni. Non a tutti, però: dalle
piattaforme marine, le amministrazioni
comunali costiere non
incassano un centesimo. Il che
aiuta a spiegare, fra l’altro, perché
i loro sindaci partecipano
più spesso ai movimenti di protesta
no-triv. Quei pochi soldi
dovrebbero riparare guasti, e
compensare pericoli, che tutte le
associazioni ambientaliste considerano
enormi. “Nel Mediterraneo,
un mare chiuso con un
lentissimo ricambio delle acque,
transita già un quarto del traffico
mondiale d’idrocarburi”,
sottolinea un dossier compilato
per il Wwf da Fabrizia Arduini e
Stefano Lenzi. “Di conseguenza,
la percentuale d’idrocarburi disciolti
nell’acqua è la più alta del
pianeta, dalle 100 alle 150 mila
tonnellate ogni anno secondo il
Programma Ambiente dell’Onu”.
Le nuove trivelle possono
contribuire pesantemente: secondo
uno studio commissionato
dai massimi organismi internazionali,
i soli pozzi esplorativi
in mare “potrebbero aver
sversato da 48 mila a 195 mila
tonnellate di sostanze tossiche”.
Senza contare il disturbo alla
fauna marina, in particolare ai
cetacei, procurato dalle navi di
ricerca con i loro “air guns”,
cannoni ad aria compressa che
sparano sul fondo marino per
studiarne la risposta sismica.
A SCONGIURARE i rischi dovrebbero
essere le procedure di
autorizzazione e le valutazioni
d’impatto ambientale, che in
Italia sono lunghe e complesse.
Si passa per tre fasi: l’autorizza -
zione alle prospezioni di ricerca,
poi allo scavo di un pozzo esplorativo,
infine alla “coltivazione”,
cioè all’estrazione. Fra una cosa
e l’altra passano in media più di
dieci anni. Ma la Strategia energetica
nazionale, licenziata poche
settimane fa dal ministero
per lo Sviluppo economico,
punta a sveltire il processo: prevede
un’autorizzazione unica
per tutte e tre le fasi.
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