Da
Gela a Brescia, da Savona a Marghera. Tra discariche tossiche, falde
inquinate, emissioni cancerogene. Nei 57 siti di bonifica nazionali c’è
l’altra faccia dell’Italia industriale. Ma il governo tagli i fondi. E
le aziende chiudono o licenziano. Nello scontro tra salute e lavoro
perdono tutti
Ci sono altre 56 Taranto pronte ad esplodere in Italia. Luoghi dove i
morti si contano – ormai da decenni – a migliaia, terre desolate cariche
di diossine, idrocarburi, pesticidi. Resti del periodo d’oro
dell’industria chimica e petrolifera italiana. Vallate che hanno accolto
milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi, contaminando le falde
acquifere, forse per sempre. Si chiamano Sin, acronimo di Sito
d’interesse nazionale, luoghi da bonificare con urgenza. Un’espressione
che suona oggi paradossale, perché in realtà di queste zone contaminate
nessuno parla. Le bonifiche sono decisamente rare e spesso finiscono
male, con inchieste giudiziarie ancora aperte. È il caso della Sisas di
Pioltello, su cui indaga la procura di Milano, o di Marano e Grado, in
Friuli, su cui pende un’inchiesta dei pm di Udine. Le terre contaminate
sono una parte consistente del Paese. Ci abitano 9 milioni di persone,
quasi il 15 per cento della popolazione, nel territorio di 300 Comuni. A
capo delle procedure di bonifica c’è il ministero dell’Ambiente, che
spesso affida il dossier a commissari straordinari, con poteri di deroga
alle leggi. Pochissimi i soldi a disposizione, con un taglio netto
avvenuto nel 2011 di 232 milioni di euro (pari al 31,2 per cento del
budget totale), come ha denunciati in uno studio dello scorso aprile la
Cgil. Il governo dunque punta a trovare imprenditori in grado di pagare
il conto. Il Pdl lo scorso anno aveva presentato un disegno di legge per
trasformare i Sin in altrettante zone franche: meno regole, in cambio
delle bonifiche. La parola d’ordine è semplificare: «Il problema è il
riuso delle terre recuperate – ha spiegato il ministro dell’Ambiente
Corrado Clini – e vorremmo semplificare le procedure che consentono di
riutilizzare a fini industriali i siti contaminati». L’obiettivo,
insomma, è che le terre avvelenate dalle fabbriche finiscano in mano ad
altri imprenditori, specialmente agli immobiliaristi, interessati a
conquistare terreni, soprattutto attorno alle città del Nord. Un
precedente del genere, però, non è andato a buon fine: a Santa Giulia,
vicino Milano, un progetto di riconversione immobiliare di un terreno
inquinato si è chiuso con l’arresto e la condanna di molti dirigenti del
colosso delle bonifiche Green Holding. Sulle operazioni di recupero dei
terreni contaminati in Lombardia indaga da diversi mesi la commissione
ecomafie. Gli unici numeri che nessuno per ora vuole tagliare riguardano
le vittime dei veleni. Sono almeno 416 i decessi sospetti nel solo
periodo 1995-2007, secondo il report Sentieri, lo studio epidemiologico
curato da università La Sapienza, Cnr, Istituto superiore di Sanità e
ministero della Salute, realizzato su 44 dei 57 Sin – tra cui l’Ilva di
Taranto – che ancora attendono una bonifica. Con un risultato forse
scontato, ma che è bene registrare in memoria: nelle città avvelenate si
muore molto di più rispetto alla media. E si muore male, colpiti da
tumori fulminanti o da malattie che non lasciano scampo. Devastante è
anche la conseguenza del mancato intervento di bonifica, il cui costo – è
bene ricordarlo – per legge dovrebbe essere interamente a carico di chi
ha inquinato. Un principio che spesso non viene rispettato, con società
finite in fallimento che passano la palla alle casse dello Stato. Dal
Nord delle grandi storiche industrie, al Sud delle cattedrali nel
deserto, fino al mare di Sicilia, dove si affacciano i grandi impianti
petrolchimici di Gela e Priolo.
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