sabato 18 agosto 2012
Clini smentito dagli ambientalisti, chiudere l'Ilva di Taranto e risanare si può
Chiudere e risanare si può
l’ultima bugia di Clini
“OTTO MESI PER FAR RIPARTIRE L’A LT OFOR NO”
NON È VERO, DICONO OPERAI E AMBIENTALISTI
Nel 2009 Riva
fermò 4
impianti su 5:
c’è la crisi
meglio
p ro d u r re
di meno
di Salvatore Cannavò Il Fatto quotidiano 19 agosto 2012
Il ministro Clini è stato apocalittico:
“Se si chiude l’im -
pianto a caldo finisce l’I l va ,
ci vogliono 8 mesi per spegnere
tutto, più altri mesi eventualmente
per farlo ripartire.
Nel frattempo il mercato dell’acciaio
non aspetta”. Accettare
le prescrizioni del gip di Taranto,
in base a questo ragionamento
potrebbe essere una cat
a s t ro fe .
Chiudere è possibile
“A me sembra che stiano giocando”
spiega al Fatto France -
sco Maresca, operaio Ilva per
35 anni, andato in pensione
con la legge sull’amianto, e
componente di un originale
gruppo di lavoro che riunisce
ex operai dell’acciaio, Legambiente,
Libera, una ricercatrice
dll’Istituto Ernesto Martino.
Hanno redatto un documento
intitolato “Produrre acciaio
pulito è possibile” r ifacendosi
agli studi sui processi Corex e
Finex progettati dalla Siemens.
Su Clini non hanno dubbi: “Fa
allar mismo”.“All’Ilva ci ho lavorato
una vita e sono sicuro
che per riattivare un altoforno
bastano 2 o 3 settimane” af ferma
Maresca, confortato da un
altro componente del gruppo,
Leo Corvace, del direttivo di
Legambiente, grande esperto
dell’I l va .
Insomma, chiudere gli altiforni
per ristrutturarli è possibile e
l’unico limite è il costo. Lo hanno
confermato al Fatto anche
ingegneri del ministero dell’Ambiente
che preferiscono
mantenere l’anonimato. Anche
chiudere le altre due aree
più velenose, l’a gglomerato
(dove si mescola il minerale
ferroso) e la cokeria (dove si distilla
il carbone) può farsi senza
problemi. Tanto che le cokerie
sono già state chiuse nel 2002
dopo l’intervento della Procura.
“Allora l’Ilva - ricorda Corvace
- preferì chiudere le batterie
piuttosto che adempiere
alle prescrizioni della Procura.
Poi, grazie all’intesa regionale
siglata con l’allora giunta Fitto,
le riaprì senza però mettersi in
re go l a ”. La chiusura degli altiforni,
invece, è resa possibile
dal loro numero (sono 5ma attualmente
ne funzionano 4) e
quindi dalla possibilità di lavorare
“a moduli”. Se ne può chiudere
uno, lavorare al risanamento
e nel frattempo continuare
con gli altri. Lo conferma
un testimone d’eccezione,
Emilio Riva, in un’intervista al
Sole 24 Ore del 2009, in cui spiegava
la strategia contro la crisi
internazionale: “Preferisco tenere
i siti produttivi fermi al
60-70 per cento, con quattro altiforni
(...) ricorrendo alla cassa
integrazione”.
Se l’Ilva si ferma
L’altro allarme riguarda le conseguenze
della chiusura sull’economia
cittadina. Difficile
contestare l’impatto su Taranto
di un’azienda con un fatturato
di circa 6 miliardi di euro,
che paga stipendi per circa 750
milioni a una forza lavoro, diretta
e indiretta, di 15mila operai.
Solo che, anche in questo
caso, l’allarme sulla chiusura
dell’Ilva è spropositato. Nessuno
sta proponendo per la città
un futuro a pane e acqua. Le posizioni
più “ra d i c a l i ” ipotizza -
no l’impiego della forza lavoro
per la stessa bonifica e poi per
sostenere un progetto di riconversione.
Ma la proposta maggioritaria
è quella che punta alla
ristrutturazione degli impianti
e al loro mantenimento.
Legambiente, ad esempio, ha
presentato “26 punti irrinuncia
bili” in cui si chiede la “co -
pertura dei parchi minerali, la
chiusura di un altoforno, nuove
tecnologie e, in particolare,
la riduzione della produzione a
un massimo d 9 milioni (oggi
sono 10) con la prospettiva di
scendere a 6. “E’ il massimo sostenibile
da Taranto” dice Corvace,
ricordando che i guai sono
aumentati quando la produzione
di Cornigliano, nel frattempo
chiusa,è stata trasferita
nello stabilimento pugliese.
Nessun abbandono della città.
quindi ma interventi di riqualificazione,
anche imponenti.
E del resto, prima di prendere
le mazzette da Archinà, il perito
Liberti, allora Rettore del Politecnico,
nel 2005, pubblicò
uno studio di fattibilità sulla copertura
dei parchi per evitare
la dispersione di polveri. Progetto
che oggi è ritenuto impossibile
dall’azienda. Che ovviamente
vuole spendere il
meno possibile. Al massimo,
146 milioni che però “non sono
un granché” dicono Corvace
e Maresca.
Solo che quando si parla di soldi
non si conteggiano i benefici
avuti dai Riva: finaziamenti
pubblici, cassa integrazione,
l’Ilva “re g a l a t a ” dallo Stato. E
poi gli stipendi. Fino al 2000,
ad esempio, la vecchia generazione
operaia, mandata in pensione
anticipata con la legge
sull’amianto, era inquadrata al
sesto livello. Oggi il grosso dei
dipendenti è inquadrato al terzo
livello. Anche per questo Riva
non lascerà mai Taranto -
conclude Maresca - perché Taranto
è redditizia”.
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