(15.08.13)
Da
quando ci sono
meno risorse
per
il business
dell'anti-incendio
i media fanno
meno
grancassa... e
gli incendi
diminuiscono.
Ma si
profilano
nuove
speculazioni
che
impediscono
la prevenzione
vera
Incendi boschivi: le verità scomode
(sgonfiato il business dell'anti-incendio
ci sono nuovi sciacalli in agguato)
di Michele Corti
La
vera
prevenzione
degli incendi
boschivi si fa
recuperando le
superfici
incolte
all'agricoltura
e alla
pastorizia. Ma
gli interessi
coalizzati
dell'ambientalismo,
del business
delle aree
protette (e
"crediti di
carbonio") e della la
burocrazia
forestale
delle regioni
lo
impediscono.
L'amaro sfogo
di Giancarlo
Moioli,
tecnico della
Comunità
Montana Valle
seriana (Bg) con
trentennale
esperienza
nella lotta
agli incendi
boschivi (e
nella vera
prevenzione)
che abbiamo
intervistato
dopo gli
incendi delle
scorse
settimane.
La
prima cosa che
Moioli ci dice
appare
sconcertante
per chi non è addetto ai lavori, ma serve a
inquadrare
subito il
problema:
"Nel
corso di tanti
anni, durante
i quali mi
sono
confrontato
con il
problena degli
incendi
boschivi, ho
subito una
profonda metamorfosi:
ho capito come
la guerra (in
questo caso
agli incendi)
prima o poi la
perdi. Non
dobbiamo aver
timore a
riconoscere
pubblicamente
che ci sono in
gioco grossi
interessi
economici e
fattori di
prestigio
personale
dietro
l'audience
mediatica
suscitata
dalle notizie
sugli incendi
boschivi".
Il
nesso tra
interessi
economici e
audience
mediatica da
una parte e
numero degli
incendi
dall'altra
appare
immediato solo che si
consideri che,
dopo gli anni
'90, il
fenomeno degli
incendi
boschivi appare in
netto calo. In
Italia gli
incendi
boschivi hanno
raggiunto
l'apice tra
gli anni '80
e '90.
Fonte:
Lovreglio R.,
Marciano A.,
Patrone A.,
Leone V.
(2012) Forest
fire motives
in Italy:
preliminary
results of a
pilot survey
in the most
fire-affected
Provinces,
Forest@ 9 (4):
137-147 .
Nel
decennio1971-1980 gli
incendi
boschivi sono
stati 6.964,
nel 1981-1990
erano saliti
a 11.348, nel
1991-2000
erano ancora
10.576, mentre
nel 2001-2010
sono scesi a
6.857 (Lovreglio et
al., 2012)
.
Il caso della
Lombardia, che
dispone di un
data-base
sugli incendi
boschivi che
risale
all'inizio
degli anni
'60, consente
di mettere in
evidenza come
in quei tempi (quando la società rurale ancora "si teneva")
il fenomeno
fosse di
dimensioni
estremamente
meno
rilevanti di quelle assunte in seguito.
Che
cosa è
successo tra
il 1960 e gli
anni '90? Due
cose: da una
parte
l'abbandono
dell'agricoltura
di montagna,
dall'altra
l'aumento dei
fondi per la
"lotta" agli
incendi
boschivi e
l'aumento
della
diffusione dei
media.
Piano AIA Regione Lombardia 2010-2012
Più
incendi in Tv =
più nuovi
incendi
Perché
gli incendi
calano?
Semplice: si
spende di meno
e se ne parla
di meno. Gli
incendi
boschivi sono
stati per
molti anni la
notizia
martellante
dell'estate.
Perché non vi
erano altre
notizie da
dare? No.
Perché parlare
molto di
incendi faceva
scattare in
soggetti
psicologicamente
disturbati la
spinta
emulativa.
Chi guadagnava
dal lucroso
business dei
sistemi di
rilevamento
terrestri,
aerei
satellitari,
della
fornitura dei
mezzi e
attrezzature
alle squadre
AIB (anti
incendi
boschivi) si
fregava le
mani.
Meno
soldi a
disposizione
per la lotta
agli incendi
boschivi, meno
business, meno
interesse dei
media e meno
incendi.
Quest'anno
il catastrofico incendio (innescato peraltro dai
fulmini) che
ha
interessato il
Friuli dal 14
luglio
al 12
agosto, non
ha ricevuto
molta
attenzione.
Anche se è
stato forse il
peggiore mai
divampato
in Italia, sia
per la durata
che per
l'estensione
(superiore a
1.000 ettari).
Sono
dovuti
intervenire
anche mezzi
aerei dalla
Carinzia.
Grossi
incendi, anche
in
Sardegna, dove
sono stati
chiesti
rinforzi di
uomini e di
mezzi dal
Continente. Incendi anche in Sicilia. Ma sui TG imperversa la cronaca
nera, il "femminicidio" e agli incendi si dedica poca o nulla
attenzione.
Meglio
così. Meglio che si parli poco di incendi boschivi. Da
quando non si
parla più di
pietre
scagliate dai
cavalcavia e
di traversine
sui binari dei
treni ("per
vedere
l'effetto che
fa") il
fenomeno è
quasi cessato
(purtroppo non
del tutto ma i
media,
saggiamente,
tacciono).
In
realtà qualche
polemica c'è
stata. Si è
sottolineato
che fino
allo scorso
anno la flotta
di Canadair
della
protezione
civile era
costituita da
30
velivoli.
La polemica
sulla
dismissione
della flotta
aerea sarebbe
apparentemente sacrosanta ma
Moioli
osserva: "è
inutile avere
aerei sulla
carta quando
per mancanza
di risorse per
la
manutenzione
li si deve
tenere a
terra".
In
passato, però,
il costo della
flotta
anti-incendio
della
protezione
civile era
esorbitante.
C'erano
parecchi
bimotori
Chinnock e i
grossi aerei
da trasporto
G222, entrambi
pochissimo
utilizzati.
Un'ora di
servizio di un
Chinoock
costava 220
milioni delle
vecchie
lirette
(contro 25
mila di un
Canadair).
Erano
enormi anche
le spese delle
Regioni che affittavano mezzi aere
anti-incendio
a go go.
Oggi
le
regioni,
pur spendendo
ancora milioni e
milioni per i
servizi di
elicotteri
anti incendio,
hanno adottato
dei sistemi di
appalti che
garantiscono
la
disponibilità
(variabile in
funzione dei
mesi) di un
cento numero
di elicotteri
assicurando comunque un
numero minimo
di ore di volo alle ditte
anche se non
vengono
effettuate. Le
ore eventuali
in più sono
riconosciute
ma a tariffescontate. In questo modo le ditte guadagnano di più se non
ci sono incendi. Certo se proprio non ce ne fossero più ... non ci
sarebbero nemmeno gli appalti.
In passato più i
boschi
bruciavano e
più venivano
affittati
elicotteri a
tariffe
elevate. In
questo modo
più c'erano
incendi e più
i servizi
aerei
fatturavano.
Un incentivo
pericoloso.
Motivazioni
vere e mitiche
Intorno
agli incendi
boschivi si
era sviluppata
tutta una
mitologia,
spesso
alimentata dai
media e dagli
ambientalisti.
Lo stesso
Piano AIB
della Regione
Lombardia
2010-2012
insiste nel
ritenere che:
"Spesso
gli incendi
dolosi
derivano
dall’erroneo
convincimento
che le aree
boscate
percorse e/o
distrutte dal
fuoco possano
successivamente
essere
utilmente
utilizzate a
vantaggio di
interessi
specifici,
connessi alla
speculazione
edilizia,
all’esercizio
della caccia
ed al
bracconaggio,
all’ampliamento
ed al
rinnovamento
delle
coltivazioni
agrarie".
Si
tratta di
motivazioni
che potevano
forse valere
in passato. Da
decenni sono
in vigore
norme sin
troppo
restrittive
sull'utilizzo
dei terreni
percorsi dal fuoco. La Legge quadro n 353 del 200 in materia di incendi boschivi ha generalizzato e rafforzato queste misure.
Ma sono sempre sagge? Il
divieto di
pascolo
sui terreni percorsi dal fuoro risulta spesso del
tutto
controproducente.
Nelle
condizioni
della montagna
alpina (e
prealpina),
ben diverse da
quelle
mediterrane,
il mancato
utilizzo delle
superfici
percorse dal
fuoco
determina unforte sviluppo
di una
vegetazione
arbustiva e di
erbe alte che
rappresenta la
condizioni
migliori per
l'innesco
degli incendi
(qui
concentrati
nel periodo
febbraio-marzo
in presenza di
Föhn ein assenza
di copertura
nevosa).
Sono le stesse
statistiche
riportate dal
Piano AIB
della regione
che dicono che
il 70% degli
incendi si
sviluppa entro
10 anni
dall'ultimo episodio. Di
fatto gli
incendi
interessano le
stesse aree.
Quelle prese
di mira dai
piromani e
quelle dove
l'innesco è
agevole grazia
all'abbondanza
del materiale
combustibile a
terra e negli
strati bassi
della
vegetazione
(biomassa
vegetale
necrotizzata).
Quanto
alla
speculazione
edilizia viene
da ridere al
solo pensiero
che si
continui a
sostenere
questa
"motivazione".
La stragrande
maggioranza
degli incendi
interessa
superfici
impervie, dove
nessuno
andrebbe mai
ad edificate.
Più credibile
la motivazione
che indica
attribuisce ai
piromani
volontà di
"ritorsione"
contro le aree
protette e i
vincoli
imposti. Essa
comunque
spiega solo
gli incendi in
ben
determinate
aree ed appare marginale.
Lo
stesso Piano
regionale deve
riconoscere,
però, tra le
motivazioni
degli incendi
boschivi: "la
prospettiva di
creare
occupazione
nell’ambito
delle attività
di vigilanza
antincendio,
di spegnimento
e di
ricostituzione
boschiva".
All'occupazione
bisognerebbe
aggiungere il
profitto (o
quantomeno il
fatturato). Su
questo punto
ci pensa
Moioli a fa
capire che gli
interessi
economici sono
tutt'ora molto
forti:
"Quanti
dispositivi
(costosissimi)
di protezione
individuale
(DPI) vengono
venduti ogni
anno da ditte
private alle
organizzazioni
antincendio?
Vestire un
volontario con
dispositivi
idonei oggi
comporta una
spesa minima
di 2.000 €;
se un solo
Ente ha un
centinaio di
volontari da
gestire, ben
si comprende
quale business
ruoti intorno.Come
ho già
segnalato più
volte, è
abnorme
l'investimento
di risorse
pubbliche per
vestire e
tutelare
migliaia di
persone che,
spesso, non intervengono per anni e anni".
La
grande
"esposizione
mediatica"
goduta anni fa
dagli incendi
boschivi non
induceva solo
l'emulazione.
Vi era anche
un meccanismo
ancora
peggiore.
Nelle squadre
di volontari
si inserivano
personaggi con
la "sindrome
di Rambo",
assetati di
adrenalina o
convinti di
poter
conquistarsi
un ruolo da
eroi, da
pompieri di NY
l'11
settembre.
Una minoranza deviante, ma in grado di fare danni. Gente che
desidera
apparire in TV
o rilasciare
interviste ai
giornali
locali bardata
di tutto punto. Per loro la mancanza di incendi è una privazione.
Moioli racconta che
nella
sua lunga
esperienza
ha imparato a
inquadrare gli
elementi
psicologicamente
sofferenti,
sempre in
aspettativa
dell'emergenza,
che quando non
scoppiano
incendi
dichiarano apertamente di
essere
preoccupa di di
rimanerre
"disoccupati".
Quanto dice
Moioli trova
conferma nella
decisione
assunta
quest'anno
dalla Regione
Liguria: d'ora
in poi le
Dotazione di
Protezione
Individuale e le
assicurazioni
se
le dovranno
pagare ditasca loro volontari . Pare un
assurdo ma
questo è un
modo per
ridurre lo
spreco di
costose
attrezzature
(usate, a volte,
per farne
sfoggio) e per
evitare che,
chi nutre
ambigue
intenzioni e propensioni,
entri nelle
squadre AIB. Moioli
ricorda anche
che:
"
(...) ancora
più abnorme è
la densita di
automezzi ad
uso speciale
che ormai
pullulano in
tali
associazioni,
finanziati
attraverso i
fondi
regionali ed
in alcuni casi
direttamente
dal
Dipartimento
Protezione civile; ci
sono squadre
che dispongono
fino a 3
automezzi
fuoristrada
attrezzati con
moduli
antincendio,
pompe ad
altissima
pressione ecc,
del costo di
parecchie
decine di
migliaia di
euro.
L''ammortamento
ed il
deperimento di
tali macchine
(inevitabile)
supera per
costi i
benefici
derivanti
dallo
sfruttamento
degli
automezzi.
Scandalosa è
la periodica
messa fuori
omologazione
delle migliaia
di apparati
radio in
dotazione,
complice la
pressione
delle aziende
che fabbricano
tali prodotti,
che spingono
sul ministero
delle Poste e
Telecomunicazioni
per far cio',
con la
conseguenza
che Regione ed
enti devono
periodicamente
predisporre
gare per nuovi
acquisti e
rottamare
apparati
perfettamente
funzionanti e
poco
utilizzati".
La
prevenzione è
la strada da
seguire, ma
non crea
business
Quando
Moioli dice
che la guerra
agli incendi è
persa in
partenza non
lo fa per
disfattismo,
ma perché ha
conatato come,
invece che
combatterli,
sia meglio
prevenirli.
Le risorse
distolte da
una inutile
lotta agli
incendi
(divampano
nello stesso
posto dopo
pochi anni)
potrebbero
essere
utilizzate per
la
prevenzione.
Per la lotta
agli incendi
che non si può
fare a meno di
combattere
(perché
minacciano
centri
abitati,
infrastrutture,
formazioni
forestali di
importanza
protettiva,
habitat di
pregio
naturalistico)
va mantenuta
una struttura
limitata ma
altamente
efficiente.
Ma
su cosa si
intende per
prevenzione è
bene capirsi.
Per
"prevenzione"
le istituzioni
intendono
l'avvistamento
dei focolai di
incendio
grazie a
sistemi
costosi di
rilevamento a
terra o
satellitare.
Quasto tipo di
"prevenzione"
che che
crea business
è
perfettamente
analoga alla
"prevenzione"
del cancro di
cui parla
Veronesi.
Veronesi (ma
non solo)
scambia
"prevenzione"
per diagnosi
precoce. Ma
non dice che
la vera
prevenzione si
fa spegnendo i
camini (e non
solo le
sigarette),
eliminando
completamente
l'uso di
pesticidi in
agricoltura
ecc. Veronesi,
al contrario,
dice che gli
inceneritori
non
rappresentano
un rischio per
la salute. Nel
caso degli
incendi
boschivi la
prevenzione si
fa impedendo
che gli
incendi
possano essere
facilmente
innescati. La
benzina e il
vento aiutano
i piromani ma
se non c'è
materiale
vegetale
combustibile a
non
servirebbero a
nulla.
Nel
citato Piano
della Regione
Lombardia si
ricorda che:
il 40% degli
eventi
straordinari
della serie
storica sia
stato
innescato su
terreni
incolti, in
stato di
abbandono
colturale,
caratterizzati
dall’accumulo
di
combustibile
fine (erbe,
arbusti di
piccole
dimensioni,
foglie
secche…). Il
paesaggio
dell'abbandono
con un
"mosaico" di
erbe altre,
cespugli alti
e bassi,
fronde degli
alberi a
contatto con i
cespugli, rovi
e liane è
l'ideale per
lo sviluppo
degli incendi
devastanti. Se
c'è solo erba
secca a terra
il fuoco
serpeggia, le
fiammelle
lambiscono gli
alberi ma la
loro corteccia
suberosa
difende
efficacemente
il tessuto
vivo. Le cose
cambiano
drasticamente
quando l'erba
trasmette il
fuoco ai
cespugli e
questi ai rami
bassi degli
alberi. Allora
le fiamme
avvolgono gli
alberi e si
levano alte
sino alla
sommità delle
chiome
trasformando
grandi alberi
in
fiammiferi.
Moioli fa
riferimento
alle sue
esperienze:
"Togliendo
materiale
vegetale (che
diventerà
secco col
tempo e dunque
facile preda
per le fiamme)
con
l’intervento
di greggi
pascolanti o
di bestiame
adeguato,
limitando la
cronaca di
incendi sui
mass media,
pian piano il
fenomeno si
riduce sin
quasi a
scomparire. Anno
dopo anno (non
lo dico io, lo
affermano le
due tesi di
laurea in
scienze
agrarie
prodotte
presso
l’Università
di Milano) gli
incendi nelle
aree pascolate
scompaiono;
nelle zone
vicine, in una
sorta di
“mancato tam
tam degli
indiani” anche
altri versanti
abbandonati e
non pascolati
non vengono
più attaccati
dal fuoco.
Insomma i
piromani si
“dimenticano”
di bruciare!"
Eresie
Purtroppo
in Italia (a
differenza di
paesi meno
burocratizzati
e meno
corrotti) la
valorizzazione
degli animali,
dei greggi e
delle mandrie
in funzione
anti-incendio
è considerata
un'eresia. Una
bizzarria.
L'uomo,
nella
valorizzazione
delle ampie
distese di
superfici
montane a
altocollinari
si è sempre
avvalso dei
suoi più
fedeli e utili
amici: gli
animali
domestici. I
quali hanno però un
grande difetto
agli occhi
dell'economia del profitto:
sono molto
economici, si
pagano da
soli.
Pascolando mantengono
spontaneamente
le fasce
tagliafuoco,
riducono la
quantità di
materia
vegetale secca
che si
accumula a
terra,
contengono lo
sviluppo dei
cespugli,
"potano" i
rami bassi
degli alberi
che possono
essere
facilmente
incendiati.
Mantenendo
praticabilicon i
loro
spostamenti
sentieri e passaggi consentono
l'accessibilità
- in caso di
necessità -
delle squadre
anti incendio
che operano a
terra. Chi
lucra sulla
"lotta agli
incendi" ha
troppo da
perdere.
Sulla
carta negli
ultimi anni c'è stata qualche timida modifica alle
leggi
forestali
improntate al
forestalismo
ideologico
spinto, al
paradigma
della
specializzazione
("qui è bosco
produttivo o
protettivo, là
è pascolo") , ma
con limiti
ancora
evidenti. Così,
mentre a
parole - dopo
tante
sollecitazioni
da parte di
non pochi
sindaci e
tecnici - si è
iniziato ad
aprire
all'idea di un
uso
multifunzionale
del bosco,
all'idea
stessa del pascolo in
funzione di
prevenzione
degli incendi
boschivi ,
dall'altra la stessa
Regione
Lombardia (Direzione
Sistemi Verdi
e Paesaggio) frena .
Sclerosi
tecnoburocratica
Non
aiutano a
cambiare le
cose il fatto
che le
modalità di
concessione
dei contributi
previsti dal
Piano di
sviluppo
rurale per il
pascolo
escludano le
superfici
boscate e
cespugliate. Questo
disincentiva
i pastori
dal mantenere
le aree
marginali
degli alpeggi
e causa la
graduale
perdita di
superfici per
espansione dei
cespuglieti e
neoformazioni.
Di recente a
causa del
"Refresh",
ovvero del
controllo
satellitare
delle
superfici
ammesse a
premio PAC, gli
allevatori si
sono visti
decurtare di
molto i
contributi,
quando non
sono stati
chiamati a
restituire
quelli già
incassati.
Non
va poi
dimenticato
che la
mentalità
vincolistica,
quella
ispirata dal
conservazionismo
ambientalista,
ha posto sotto
tutela con la
Rete Natura
2000
tutta una
serie di
formazioni
vegetali;
ciò in
aggiunta alle
previsioni
normative
precedenti
(del tipo
rododendro
= "pianta
protetta") e
rende
impossibile
intervenire
con il taglio
o il pascolo.
La
legge
forestale
regionale
(L.R. 31/2008)
all'art 51,
comma 4
consente il
pascolo in
bosco con la
finalità di
"prevenzione
di incendi
boschivi e di
conservazione
del paesaggio
rurale" (l'idea che
gli animali
pascolino in
bosco per
alimentarsi -
come avviene
da millenni -
è
evidentemente
considerata
sempre grave eresia) ma lo
condiziona ai
piani di
indirizzo
forestale e,
in mancanza di
essi, ad
apposita
autorizzazione
dell'ente
competente in
materia
forestale e,
in ogni caso
al rispetto
delle norme
forestali.
Come dire: si può ma non si può. Ricordiamoci
che nel
vigente regime
burocratico
ottenere
autorizzazioni
significa
pagare un
tecnico
progessionista,
produrre
mappe, citare
parcelle
catastali ecc.
Ancora
peggio la
ancor più
recente legge
forestale
piemontese che
ribadisce
impavidamente il
divieto
assoluto di
pascolo delle
capre nel
bosco ("salvo
una fascia di
10 m dai
tracciati
utilizzati per
transumanza e
trasferimento
all'alpeggio").
Moioli
sintetizza con
parole molto
amarel'esito della
politica
agricola e per
la montagna
della Regione
Lombardia (e
non solo di quella).
"(...)
se giriamo in
questi giorni
anche sulla
montagna
bergamasca
vediamo con
gli occhi lo
sfascio
che
l'agricoltura
di rapina
(quella
scopiazzata e
male dalla
pianura) ci
restituisce.
Sull'altopiano di Clusone (ma non solo lì ovviamente), laddove i grossi trattori (da 150 e più cavalli, magari da sfoggiare al bar, acquistati forse con il contributo del PSR) e le macchine agricole trainate son riusciti a destreggiarsi, hanno falciato e raccolto. Tutti i perimetri ove gli spini (rovi) avanzano, i contorni delle servitù (pali della luce e simili) hanno le stoppie secche in piedi. Nessuno, dico nessuno, si è preso in spalla il decespugliatore, o il falcetto o la falce per contenere l'avanzamento spontaneo della flora arbustiva ed arborea.
Certo che poi la regione Lombardia fa diventare boschi anche i roveti, con tutte le conseguenze vincolistiche del caso! E guai a metterci le capre! Distruggi la rinnovazione!"
Sull'altopiano di Clusone (ma non solo lì ovviamente), laddove i grossi trattori (da 150 e più cavalli, magari da sfoggiare al bar, acquistati forse con il contributo del PSR) e le macchine agricole trainate son riusciti a destreggiarsi, hanno falciato e raccolto. Tutti i perimetri ove gli spini (rovi) avanzano, i contorni delle servitù (pali della luce e simili) hanno le stoppie secche in piedi. Nessuno, dico nessuno, si è preso in spalla il decespugliatore, o il falcetto o la falce per contenere l'avanzamento spontaneo della flora arbustiva ed arborea.
Certo che poi la regione Lombardia fa diventare boschi anche i roveti, con tutte le conseguenze vincolistiche del caso! E guai a metterci le capre! Distruggi la rinnovazione!"
Moioli
non parla a vanvera, parla per esperienza, sulla base di
progetti sperimentali eseguiti tra mille difficoltà (per via della
burocrazia). A
personaggi
come il Dr.
Roberto
Tonetto,
responsabile
Unità
Operativa
Sistemi Verdi
e Foreste
della
Direzione
Generale
Sistemi Verdi
e Paesaggio
della Regione
Lombardia,
fischieranno
le orecchie.
Niente
di nuovo
Oggi
l'ambientalismo
inneggia alla
"naturalizzazione"
dei boschi,
vorrebbe
limitare le
attività
tradizionali
della montagna
che non
possono o non
vogliono adattarsi
alla
"convivenza"
(imposta dagli
ambientalisti)
con i Grandi
Predatori.
Sono i
"nipotini di
Boleslao e
Ladislao"
come li
definiva Dario
Paccino un
"ecologo
politico" di
altri tempi
(con
riferimento
alle
imposizioni di
questi re
sull'uso delle
foreste a
danno delle
popolazioni e a
loro vantaggio
monopolistico).
Niente di
nuovo: signori
feudali, re,
Stato moderno
sono stati
sempre
ambientalisti.
Lo
Stato e i
forestali del
XIX secolo
hanno imposto
rigidi divieti
di pascolo
dopo che gli
speculatori e
le nuove
manifatture avevano
depauperato i
boschi. Lo avevano fatto per
alimentare con l'energia del legno la
prima fase
dello sviluppo
industriale
(prima
dell'era del
carbon
fossile).
Per gli esperti di allora bisognava
evitare che il
volgo avido e
ignorante
distruggesse i
boschi (già
distrutti). In
realtà,
privando i
montanari -
specie i più
poveri - di
ampe superfici
di pascoli
comuni, li si
costringeva ad
abbandonare qualsiasi forma di allevamento e ad emigrare in
modo
permanente, a
diventare
braccia a
basso costo
per lo
sviluppo
industriale capitalistico.
Oggi
c'è
un blocco
sociale, costituito da interessi
economici
speculativi e
di ampie fasce
di ceto medio
burocratico,
che vuole
imporre
l'ambientalismo
dei Parchi,
le speculazioni sui "crediti
di carbonio",
sulle
"biomasse"
a
spese delle
Terre Alte,
dei contadini,
allevatori,
pastori,
taglialegna.,
Tutti soggetti
sociali (e
politici)
irrimediabilmente
deboli. Orsi e lupi fanno da foglia di fico distogliendo l'attenzione
dei benpensanti affascinati dal "ritorno della natura selvaggia".
Un
paese ricco di
boschi mal
gestiti e
inaccessibili,
ma il business
si è messo in
movimento:
"tagliare lì,
piantare
là"
Improvvisamente,
da quando è
balenato il
miraggio del
"petrolio
verde",
ambientalisti,
Uncem.
Coldiretti
paiono aver
scoperto che
l'Italia è un
paese ricco di
boschi. I
boschi in effetti sono
aumentati di
1,7 milioni di
ettari negli
ultimi
trent'anni e
ogni anno si
perdono 100
mila ettari di
superfici
agricole a
favore del
bosco. Prima
dell'era delle
biomasse (o
meglio degli
incentivi per
la produzione
di energia
elettrica da
fonti
rinnovabili
più generosi
d'Europa), però, il
bosco e la
"filiera
legno" erano
una
Cenerentola.
Non
interessavano
più a nessuno.
Il
WWF poteva
dire che "la
miglior
gestione del
bosco è la non
gestione".
Altri tempi.
Ora tutti
parlano dei
boschi
italiani come
se, sino
all'ultimo
ettaro,
potessero
essere
inseriti nella
filiera legno ed energetica.
Dimenticano
che, sia le
Alpi che gli
Appennini, sono
caratterizzati
da scarsa
accessibilità
e forti
pendenze. Che
per operare
con cantieri
industriali
per la
cippatura
bisogna
arrivare sul
posto, in
foresta, con
mezzi pesanti
che non
transitano
sulla gran
parte delle
nostre "piste
forestali"
(quando cisono).
Ma allora perché
dicono che
"abbiamo il
petrolio
verde"?
Perché, con la
scusa della
"filiera corta",
dei posti di
lavoro, della
manutenzione e
pulizia dei
boschi (che
prevverrà gli
incendi
boschivi...) i
signori
speculatori si
fanno
autorizzare (e finanziare)
la realizzazione di
inceneritori
(che chiamano
"caldaie"). Essi bruceranno
solo in parte,
o per nulla,
"biomasse a
filiera corta"
ma,
prevalentemente,
cippato di
lontana
origine,
materiale
riciclato
(magari
trattato con
prodotti
chimici),
potature
stradali
(fortemente
contaminate),
rifiuti toutcourt.
In qualche caso,
dove le
condizioni di
accessibilità
e di pendenza
lo consentono,
dopo aver
tracciato
strade dal
forte impatto
sui versanti,
si procederà a
tagli
quasi-a-raso.
Così, mentre dove
c'è una
qualche
convenienza
economica, si
sta
procedendo - e
si procederà
sempre più - a
tagli che il
WWF potrebbe,
finalmente con
qualche
ragione,
definire
"selvaggi",
gli
speculatori
verdi
di Legambiente
all'interno
dei Parchi
(Fererparchi) stanno promuovendo
l'operazione "Parchi
per Kyoto"
, promossa da
loro e Kyoto
club (ex vice
presidente
l'onnipresente
Ermete
Realacci e
adesso
Francesco
Ferrante già
Direttore
Generale di
Legambiente)
con
l'immancabile supporto
tecnico di
AzzeroCO2
(società
fondata da
Legambiente,
con soci e
amministratori
i soliti esponenti del Cigno).
E c'è da
scommettere
che nel
business c'è
di mezzo la
Gica, la prima società
italiana
"private
capital pool
in the carbon
market" (ma con
sede a
Lugano) promossa
da De
Benedetti,
Intesa,
Lucchini ecc. per
l' acquisto,
la vendita, il
commercio dei
titoli Carbon
Assets.
"Peccato
lasciar
bruciare i
boschi
inutilmente,
quanta
biomassa
sprecata!"
Mano
a mano che il
business delle
biomasse si
diffonde si
fanno più
insistenti le
voci di
personaggi (che
mai sino ad
oggi, si erano
preoccupati
dei boschi) che pare
non abbiano
altra
preoccupazione
che la loro
pulizia, la
loro gestione
"sostenibile"
(per la
produzione di
biomasse).
Quando venne
realizzata nel
1997 la
centrale di
Sellero in
Valle Camonica
(che in mezzo
ad una valle
boscosa
funziona con
cippato
importato e
che, a suo
tempo, è stata
protagonista
dello scandalo
della
combustone di
rifiuti
contenenti
plastica) si
disse che vi
era
l'opportunità
di utilizzare
una grande
quantità di
materiale
legnoso
proveniente
dalla bonifica
di estese
superfci
boschive
devastate da
un un grande
incendio.
Sorge a questo punto il
dubbio che la
recrudescenza
degli incendi boschivi possa diventare interessante
per la speculazione
sulle biomasse
legnose
(almeno finché
dura il
bengodi degli
incentivi
statosferici
per l'energia
elettrica "da
impianti a
biomasse").
Questo sarebbe
un nuovo
atroce
capitolo nella
storia degli
incendi
boschivi in
Italia. Quello che abbiamo
conosciuto
sino ad oggi
non è stato, in ogni
caso,
molto edificante.
Giancarlo Moioli, che da
anni cerca di
sensibilizzare
sul tema della (vera)
prevenzione
degli incendi
boschivi i
politici
bergamaschi e
lombardi, a
dimostrazione
della loro
"sensibilità"
ci ha riferito
quanto segue:
"
Recentemente,
ho scritto su
queste
questioni,
agli onorevoli
di frescanomina (Maurizio
Martina,
bergamasco e
perito
agrario, come
il
sottoscritto,
ex studente
dell'ITIS di
Bergamo.
Antonio
Misiani,
bergamasco
come me,
apprezzato
tesoriere del
Partito
democratico,
persona che
comunque
stimo), un promemoria in
merito perchè
ritengo che se
imparassero ad
ascoltare un
po' di piu chi
vive sul
territorio e
ci opera da
anni ( e di
tecnici con
esperienze
trentennali
come me da
ascoltare in
Italia ritengo
ce ne siano
parecchi)
andremmo tutti
meglio".
http://www.ruralpini.it/Commeti-13.08.13-incendi-e-business.htm
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