No, nulla può giustificare la
proposta di sdemanializzazione delle spiagge presentata con un
emendamento del PDL alla legge di stabilità attualmente in discussione
al Parlamento.
E’ qualcosa di semplicemente
schifoso, che va fermato perché sancirebbe la completa privatizzazione
di una delle caratteristiche “bellezze paesaggistiche” del nostro Paese
con la conseguente ulteriore cementificazione delle nostre coste.
Invece di vedere aumentare la
tutela di questo patrimonio, come conseguenza di un’eventuale
approvazione della proposta i cittadini italiani e le future generazioni
verrebbero espropriati di un bene che appartiene a loro ovvero alla
collettività.
Di fatto si tratta di
un’operazione di tutela di interessi per una lobby che è sempre stata
molto forte ed è stata sempre spalleggiata da una politica pronta a
mantenere promesse ed a ricambiare favori elettorali.
In Italia, dal dopoguerra ad
oggi, sono state rilasciate dallo Stato italiano, prima dalle
capitanerie di porto e poi dalle regioni, 30mila concessioni sul demanio
marittimo legate a 15mila stabilimenti balneari che insistono su 600
comuni costieri.
Il tutto è avvenuto sempre
senza alcuna gara di evidenza pubblica: le concessioni, prima nominali,
si sono trasferite nel corso degli anni da padre in figlio,
successivamente sono state vendute attraverso la creazione di società di
gestione di servizi: un vero e proprio “diritto ereditario” mai
volutamente corretto o regolamentato dalle istituzioni pubbliche.
La “sdemanializzazione”
sarebbe anche un espediente per aggirare quanto da tempo ci chiede
l’Unione Europea: l’Italia si adegui alla direttiva Bolkestain,
assegnando in concessione gli arenili demaniali in base ad aste
pubbliche e a criteri trasparenti.
E mentre si perpetrano questi
trattamenti di favore le spiagge italiane sono diventate le più
cementificate d'Europa, gli accessi al mare sono spesso consentiti,
violando la legge, solo attraverso il pagamento di un pedaggio.
I lungomari si sono stati
trasformati in un lungomuri di cemento che impediscono l'accesso e la
vista mare nonché la possibilità di godere liberamente del
bene-paesaggio.
Questa situazione riguarda circa 4.000 km di spiaggia degli 8.000 che costituiscono le coste italiane.
Se si considera che quasi
3.000 km di costa sono rocciose o occupate da servizi portuali,
immediatamente si comprende che in proporzione le “spiagge libere” sono
una percentuale irrisoria ed assolutamente sproporzionata a tutto danno
di chi vorrebbe godere liberamente del diritto alla balneazione.
Cementificazione selvaggia
Le concessioni
complessivamente riguardano un’enorme estensione di territorio e di
fatto, soprattutto a causa della mancata vigilanza degli organi proposti
al controllo, sono oggetto di un progressivo processo di
privatizzazione: come detto, spesso la legge che garantisce il libero
accesso al mare, fatta approvare con fatica dai Verdi e dagli Ecologisti
alla fine degli anni ‘90, viene del tutto ignorata.
Per non parlare della
cementificazione selvaggia che, a causa dell’assenza di qualsiasi minimo
controllo, ha sempre seguito le concessioni.
Come abbiamo detto, in Italia
si contano circa 30.000 concessioni che, partendo dall’estensione media
di una concessione valutata in circa 3.000 metri quadri, sviluppano
complessivamente 90 milioni di m2 pari a 9.000 ettari.
La media di superficie
occupata/cementificata è in media del 20% dell’estensione delle
concessioni, ossia tra stabilimenti, servizi, cabine, piscine, palestre,
ristoranti, bar, locali notturni, negozi, alloggi personale, centri
benessere, equivalgono ad una “colata di cemento” di circa 18.000.000
(diciottomilioni) di m2 direttamente “fronte mare”.
Una cifra che non è
paragonabile a nessun paese d'Europa. In Francia esiste una fondazione
pubblica che si chiama Conservatoire du littoral che acquisisce coste e
spiagge tutelandole come
bene comune, per non parlare dell'Inghilterra o degli stessi Stati Uniti d'America culla del liberismo economico.
Ma c’è di più: oltre il danno la beffa
Come è noto le nostre spiagge
sono oggetto di erosione a causa dell’antropizzazione selvaggia che
spianando le dune, cementificando l’entroterra e costruendo miriadi di
porti turistici, ha modificato l’ecosistema che non ha retto
all’impatto.
E’ sicuro che in un domani
prossimo i gestori privati delle spiagge chiederanno allo Stato di
sostenere le spese per le opere di difesa necessarie per impedire alle
mareggiate di spazzare via tutto, realizzando barriere, effettuando
ripascimenti, sistemando massi di pietra e tetrapodi di cemento.
E non sarà più possibile
prevedere, neppure lontanamente, di rimuovere e spostare con costi
minori ed effetti migliori impianti e attrezzature commerciali-balneari
che l’attuale legislazione definisce come “precarie“ e sono la concausa
della modificazione dell’habitat costiero.
Ma quanto incassa (o sarebbe meglio dire “non incassa”) lo Stato dalle concessioni del demanio marittimo?
Dai dati ufficiali
dell’Agenzia del Demanio Marittimo si riscontrano 102 milioni di euro
nel 2012, mentre nel 2010-2011 circa 90 milioni di euro e gli anni
precedenti la metà.
In sintesi lo stato incassa
3.400 euro a concessione, mentre gli incassi che gli stabilimenti
balneari realizzano ogni anno in Italia si aggirano intorno ai 10
miliardi di euro.
Gli incassi così irrisori
sono dovuti ai bassi canoni di concessione applicati in base alla legge
27 dicembre 2006 n. 296 comma 251 che prevede: per le aree scoperte
destinate alla balneazione 1,27 € x metro2/anno e per quelle dove insistono attività commerciali 2,12 € x metro2/anno.
Ma nonostante questo,
l’applicazione delle tariffe è bloccata da una proroga governativa che
impedisce l’entrata in vigore degli adeguamenti del 2006.
Lo scandalo appare più
evidente se si passa a calcolare l’effettivo canone che questi gestori
privati delle spiagge pagano attualmente alla collettività: in pratica
uno stabilimento di 10 mila metri2 (1 ettaro) corrisponde un canone, applicando l’indice fermo a prima del 2006, irrisorio di 1 euro e 10 centesimi a metro2/annuo
per complessivi 11.000 €/anno che equivalgono a 900 €/mese mentre
incassa milioni di euro considerando solo il fatturato denunciato
all’Agenzia delle Entrate.
Un vero e proprio regalo
Ma c’è di più: nonostante la
Legge lo prevedesse, in applicazione di una disposizione europea del
1993, il governo negli ultimi 10 anni non ha provveduto ad inserire le
entrate delle concessioni nel Rendiconto Generale dello Stato e quindi
di conseguenza nel bilancio non compaiono i ricavi derivanti dalle
concessioni del demanio marittimo.
Quindi negli ultimi 10 anni è venuta meno la contabilizzazione di una somma importante, seppur inadeguata.
Perché è stato fatto?
Perché c'è un ritardo nell'accatastamento delle cubature realizzate dai concessionari sulle spiagge italiane?
Forse se quelle cifre fossero
state inserite nel rendiconto generale dello Stato, e quindi del
bilancio, più di qualcuno avrebbe potuto rendersi conto dell’enorme
truffa?
Di certo avremmo evitato agli italiani qualche taglio, ad esempio sulla sanità, sul trasporto pubblico o sull’istruzione.
La vendita delle spiagge è un atto indecente che va assolutamente fermato.
Non possiamo consentire che
venga cancellato un diritto basilare, esistente da sempre, quello del
libero accesso alle spiagge e al mare che finora è stato garantito
proprio dalla demanialità.
Occorre mobilitarsi per impedire questa operazione disastrosa.
Nel 2011 una analoga
operazione, che concedeva le spiagge ai soggetti già titolari di
concessione per 90 anni, contenuta nel decreto sviluppo, venne bloccata
dal Presidente della Repubblica e le concessioni vennero ridotte a 20
anni senza per questo riuscire a soddisfare le richieste della UE.
Appelliamoci di nuovo al
Presidente, mobilitiamo scienziati, università, geologi, paesaggisti,
investiamo il Ministero dell'Ambiente e quello dei Beni Culturali,
coinvolgiamo tutti coloro che riceverebbero un danno non risarcibile da
questa operazione priva di di sostenibilità; muoviamoci tutti, fra pochi
giorni potrebbe essere troppo tardi.
Come Verdi Ecologisti siamo
pronti alle “barricate democratiche" e ad assediare pacificamente il
Parlamento per difendere un bene comune che “appartiene a tutti".
Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa un dovere!