martedì 16 luglio 2013
Ilva “L’AVVOCATO MI DISSE: IL TUO COLLEGA MORTO? DI’ CHE FUMAVA MOLTO”
il fatto quotidiano 16 luglio 2013
Taranto, un operaio di una ditta appaltatrice: “Il legale che assisteva anche
l’Ilva mi consegnò un promemoria per testimoniare il falso. Ma non lo feci”
Un lavoratore: “Eravamo 60. L’unico rimasto vivo della mia squadra sono io”
IL MEDICO DI BASE
”Quando vengono
da me chiedo in che
reparto hai lavorato, per
quanto tempo? In base
alla risposta decido gli
accertamenti da fare”
di Sandra Amurri
inviata a Taranto Quando ho sentito dire
da Bondi che qui
si muore di fumo di
sigarette, come un
lampo mi è tornato davanti agli
occhi il momento in cui l'avvocato
mi chiese di testimoniare
che il mio compagno, morto di
tumore, fumava due pacchetti
di sigarette al giorno”. Franco
Caramia, oggi in pensione, una
vita passata come capocantiere
in una ditta appaltatrice dell'Ilva.
Di compagni ne ha persi tanti
senza poter fare nulla, ma a
uno ha reso giustizia con il suo
coraggio. “I familiari del mio
amico fecero causa e l'avvocato,
che difendeva la ditta e anche
l'Ilva, mi consegnò un promemoria
chiedendomi di leggerlo.
Avrei dovuto dire al giudice che
il mio amico era un accanito fumatore,
mentre ne fumava al
massimo 5 di sigarette. Lo guardai
in faccia e gli risposi: io sono
un uomo e su quella pedana dirò
la verità come da giuramento.
Restò di sasso. Il Tribunale
sentenziò che la causa della
morte era stata l'inquinamento”.
HA LO SGUARDO fiero Franco,
aver reso pubblico un fatto rimasto
per tanto tempo segreto è
come aver riscattato la memoria
di quell'operaio con cui ha condiviso
pane e fatica. “Era un pezzo
d'uomo, aveva fatto il paracadutista,
lavorava per tre e il
cancro lo ha divorato. Bondi ripete
quello che gli dicono di dire,
ma così fanno i pappagalli
non gli uomini”. Ricordi pesanti
che come fili legano le vite di chi
è rimasto. “Sono un superstite. I
miei colleghi sono morti tutti”.
Parla come fosse un reduce di
guerra Giuseppe Di Bello, 65
anni. La sua battaglia è durata 30
anni. Impiegato capoturno, 12
anni in acciaieria e 18 al porto.
“Ogni mattina ringrazio il Signore
per essere ancora vivo”.
Giuseppe, tre figli e tre nipoti,
abita a Mottola sulla collina a 30
km dall'Ilva. “Questo mi ha aiutato,
io finito il turno tornavo
qui mentre gli altri rientravano
nelle loro case vicino alla fabbrica
continuando a respirare veleni”.
Assunto nel '72 all'Italsider,
“quando nel'95 è arrivato
Riva la situazione è peggiorata.
Prima nell'azienda di Stato, nei
reparti, c'era polvere di amianto,
ma anche umanità. Poi è rimasto
solo l'amianto e noi siamo
diventati vuoti a perdere. Riva
ha soppresso i reparti recupero
dei convertitori, che servivano
a eliminare le polveri perché
non erano produttivi. Ai
sindacati ha detto: voi fate i sindacalisti,
io faccio il padrone. Ha
costruito la famigerata Palazzina
Laf (laminatoio a freddo) dove
spediva chi non si adeguava,
operai, funzionari, sindacalisti.
Questi sono fatti – prosegue – a
raccontarli tutti altro che i neri
del 1700! Andavano avanti solo
quelli che erano funzionali con
il sistema Riva, chi si ostinava a
conservare dignità diventava
carne da macello”. Sospira, riprende
fiato spezzato dalla
commozione e aggiunge altri ricordi:
“Quando si colava l'acciaio
liquido si spruzzava il Nalco,
simile a una calce bianca di
cui nessuno conosceva il contenuto.
Chiedevamo spiegazioni,
ci rispondevano che era una formula
segreta. Il Nalco conteneva
amianto al 40% e siccome le
placche erano bollenti sprigionavano
vapore che respiravamo.
In quel reparto lavoravano
in 60, sono morti tutti, come
quelli che lavoravano alle siviere,
i mattoni refrattari erano pieni
di amianto”. Accanto a Giuseppe,
un altro amico caro, Piero
Barulli, medico di famiglia a
Mottola da più di 30 anni: “Il
nesso di connessione diretto tra
esposizione e insorgenza delle
malattie è un dato certo. Quando
vengono da me la prima cosa
che chiedo è: in che reparto hai
lavorato o lavori, per quanto
tempo? E in base alla risposta
decido a quali accertamenti sottoporli.
I tempi di incubazione
sono lunghi, nessuno può dirsi
salvo, è una bomba a orologeria
che non sappiamo quando
scoppierà. Nulla è cambiato se
non la consapevolezza: prima
gli operai non sapevano con
quali sostanze venivano a contatto,
ora lo sanno”.
LE PAROLE del medico trovano
riscontro in quelle di un altro
operaio in pensione, Salvatore
Perrone 64 anni, 30 all'Ilva, all'acciaieria:
“Io mi controllo ma
serve a poco, due miei colleghi
lavoravano alla manutenzione,
tutti due di 62 anni sono morti
di leucemia fulminante quando
i medici dicono che colpisce in
età giovanile. Il solo fine di Riva
è il profitto. Con lui in poche settimane
ci siamo trovati a eseguire
gli ordini senza poter discutere
mentre prima in ogni reparto
i delegati, e io lo sono stato,
concordavano con i responsabili
dell'azienda come ridurre i rischi
delle attività più pericolose”.
Poi racconta come si lavorava
all’epoca: “ Io ho avuto la
sfortuna di lavorare anche nel
reparto preparazione lingottiere
quando l'acciaio si colava in
lingotti, eliminato con l'ingresso
delle colate continue. C'erano
sostanze chimiche che quando
venivano spruzzate era come fare
l'aerosol con il veleno. Molti
miei amici sono morti a 40 anni.
Non fumavano e non bevevano
ma facevano i saldatori e respiravano
i fumi. Ditelo al professore
Bondi. E ditegli pure che io
dopo 30 anni all'Ilva non arrivo
a 2 mila euro di pensione, ma capisco
quello che lui non capisce
per 300 mila euro all'anno”.
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